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Gennaio/2007 - Articoli e Inchieste
Profughi
Dall'Afghanistan verso la salvezza
di Giada Valdannini

Storia di ragazzini giunti a Roma
che dormono al Terminal Ostiense. I minori
non accompagnati che vengono
dal Terzo mondo nel nostro Paese - circa
seimila - aumentano ogni anno


Mentre Roma scivola distratta nel cuore della notte, mani operose tolgono da una catasta informe quanto messo a riparo la mattina prima: coperte ruvide di lana grezza, teli di plastica rattoppati alla meno peggio e cartoni sempre umidi. Le mani sono quelle di ragazzini che, non avendo altra sistemazione, dormono all’aperto, nei parcheggi del Terminal Ostiense. Molti di loro hanno giusto superato il metro d’altezza e uno ha appena compiuto otto anni. Si chiama Shafi e, come gli altri, arriva dall’Afghanistan dopo un viaggio durato ben dodici mesi. Di valli rigogliose ne ha viste ben poche, piuttosto montagne innevate e un mare freddo e scuro come la notte: il Mediterraneo. Col viso sempre di tre quarti e il sorriso accennato che vorrebbe esplodere, racconta di sentirsi fortunato: “Chissà quanti ragazzi del mio Paese sono morti nel tentativo di giungere in Italia”. Ad accompagnarlo nel viaggio, nessuna hostess imbellettata né biglietti di prima classe, ma la paura di essere scoperto e ucciso. Come gli altri ragazzi della sua comunità è scappato dall’Afghanistan per mettersi al riparo dalle rappresaglie che falciano intere famiglie in un conflitto ormai antico che ha messo in fuga migliaia di minori. “Piuttosto che restare lì a farci ammazzare, ce ne andiamo di casa e talvolta i nostri genitori non ne sanno nulla. Meglio che soffrano per qualche tempo o che si sveglino senza trovarci che vedere i loro figli morti ammazzati”. A raccontarlo è uno tra i più grandi del gruppo, Alì, 25 anni, potenziale medico. Potenziale perché, pur avendo intrapreso gli studi in patria, li ha dovuti interrompere a causa della fuga. Nonostante ciò continua a coccolare dentro di sé il sogno di lavorare in ospedale ma, qui da noi, tale speranza gli è preclusa. Essendo irregolare non ha pressoché alcun diritto: di un permesso di soggiorno non se ne parla e tanto meno dell’agognato asilo politico, figuriamoci dell’Università. Eppure, a giudicare da come parla di sé, non si piegherà facilmente a perdere la speranza. Lo stesso per Adnan, suo coetaneo, conosciuto in un sabato assolato nel verde del Circo Massimo. E’ lì che la comunità di Osiense s’incontra ogni fine settimana per mangiare assieme e concedersi qualche ora di normalità fatta di pallone, risate, scherzi e racconti in allegria E’ sempre lì che dei volontari della Chiesa anglicana si recano portando piatti fumanti all’ora di pranzo e talvolta del tè e biscotti se i ragazzi arrivano il pomeriggio. In fondo quella piccola gita del sabato sembra proprio l’unico momento in cui possano godersi la loro età senza confrontarsi continuamente con la vita da adulti. Sarà per questo e perché in quel momento vivono meno la loro condizione di disagio che il Circo Massimo è sicuramente il luogo più semplice in cui avvicinarli, senza correre il rischio che il loro imbarazzo si frapponga tanto profondamente da impedire la comunicazione.
Pur provenendo molti da famiglie della media borghesia afghana, qui a Roma conducono la vita delle persone più indigenti e ogni attimo della giornata è cadenzato al ritmo della necessità. Necessità di lasciare libero il parcheggio prima che arrivino i passeggeri del Terminal Ostiense, necessità di trovare un perché alla giornata senza farsi cogliere dall’inedia, necessità di non tardare alla Caritas o al Centro Astalli per assicurarsi almeno un pasto caldo. E’ così che la giornata comincia presto: ci si sciacqua il viso in una fontanella anche se tutt’intorno fa freddo, si ripongono gli abiti sporchi nello zainetto e si ammassa il necessario per la notte sotto un albero o ai piedi d’un pilone di cemento sovrastato da una piccola tettoia. Fatto ciò, la giornata è tutta d’innanzi e riuscire a riempirla non è davvero cosa facile tanto più che non si ha un luogo fisso dove trovare riparo. Così alcuni si sistemano a piazza dei Partigiani sopra un gradone rialzato dalle cui grate s’intravede un sottopassaggio e tra una chiacchiera e l’altra c’è chi si fa avanti per primo nello sfoderare quaderno e matita.
Tra gli obiettivi di questi ragazzi c’è l’apprendere la nostra lingua e visto che nessuno li supporta in ciò, tendono ad auto-organizzarsi facendo sì che i più esperti diano lezione ai meno abili o semplicemente agli ultimi arrivati. “Se pronunci così non ti capirà nessuno - capita di sentir dire - Sei un gran testone”. E giù risate a più non posso. Le loro storie sono tutte diverse eppure simili: quello cui sarebbero andati incontro se non avessero lasciato l’Afghanistan, sarebbe stata la morte. Storie identiche a quelle che racconta il film di Micheal Winterbottom, ‘Cose di questo mondo’: il viaggio di due ragazzi afgani verso la salvezza.
Secondo i dati dell’ultimo rapporto Anci (Associazione Comuni italiani), il numero dei minori non accompagnati sta crescendo ogni anno: quelli censiti si aggirano intorno ai seimila ma molti altri non saranno registrati. Un fenomeno che, pur attraversando tutta la Penisola, è presente soprattutto nelle grandi città del Lazio, dell’Emilia Romagna, del Friuli e della Lombardia. Mentre i Paesi di provenienza sono perlopiù la Romania (37,2% delle presenze), il Marocco (20,1) e l’Albania. Ma aumentano gli afghani. E non è un caso che quelli presenti a Roma, soprattutto i minori non accompagnati, si ritrovino dietro piazzale dei Partigiani. Al loro arrivo in Italia non c’è nessuno ad aspettarli se non un coetaneo di cui hanno il numero segnato su un pezzetto di carta e che, invece di assicurargli protezione, non può che portarli con sé al grande parcheggio di Ostiense in cui, ad arrivarci di sera, fa impressione vedere la grande distesa di coperte e zainetti ordinatamente deposti sull’asfalto. Finché vivranno in queste condizioni – dicono – eviteranno di telefonare ai genitori: “non possiamo dirgli che siamo fuggiti di casa per poi trovarci a dormire per strada. Con l’anno nuovo magari arriveranno buone notizie e potremo chiamare”.
Per il momento di buone notizie ce ne sono davvero poche visto che è stata negata loro persino la possibilità di passare le notti più fredde nella grande tenda allestita dalla protezione civile a Castel Sant’Angelo. Sebbene i volontari del centro Astalli avessero comunicato per tempo la condizione di questi ragazzi, la risposta è stata che non c’era posto per loro. I letti sono tutti esauriti e, ancora una volta, i giovani afghani passeranno l’inverno all’addiaccio. E se non fosse per le associazioni di volontariato non saprebbero di che sopravvivere. Al Centro Astalli, per esempio, si recano davvero in molti per avere un pasto caldo, farsi una doccia e lavare gli indumenti.
Per arrivare alla mensa, si scendono delle piccole scalette consunte rivestite di maioliche bianche che, nel corso degli anni, hanno perso sempre più il loro candore ma prima di arrivarci c’è un po’ di fila da fare. I ragazzi si dividono educatamente in due gruppi: da una parte quelli col permesso di soggiorno e dall’altra gli irregolari. Dentro alla struttura sono i vapori che escono dalle docce ad accoglierli mentre il profumo che viene dalle grandi cucine s’irradia intorno. Il tutto a due passi dalla sede della Roma degli uffici comunali e del Campidoglio in cui pochi sembrano accorgersi di ciò che passa nella vita di questi ragazzi. In una sorta di cunicolo sotterraneo, si apre la porta dei bagni dove i migranti condividono quell’attimo di normalità sotto l’acqua calda che li ristora pemettendogli di sciacquare, nello stesso getto, i panni usati il giorno prima. Indumenti sempre decorosi che verranno riposti negli zaini e poi stesi sulle recinsioni del Terminal Ostiense. Anche se, passando davanti al centro Astalli d’estate, non è difficile intravedere magliettine colorate stese sulle transenne che dividono le due file. “Quando passano i turisti - racconta uno di loro - chino sempre il capo. E’ evidente che si tratti della mensa dei poveri e mi vergogno da morire”.
Però, una volta dentro, l’imbarazzo si scioglie e si ha quasi la sensazione di entrare in un refettorio scolastico. Le lingue parlate sono così tante che si fà fatica a distinguerle ma negli zaini - tratto comune per molti - è facile trovare quadernetti lindi su cui studiano i rudimenti dell’italiano. Prima di sedersi a tavola, c’è un’altra fila da fare: tutti in coda diligentemente per avere un vassoio con un piatto di minestrone, una pasta e qualcosa di secondo. E per chi non dovesse sentirsi bene, c’è il medico pronto ad accoglierli in un’atmosfera distesa e al tempo stesso frenetica in cui giovani volontari corrono su e giù per i corridoi. Tra i più anziani ci sono figure storiche che frequentano il Centro da un ventennio: sono donne che indossano un camice bianco e che servono affettuosamente i pasti, scrupolosamente cucinati lì per lì. Per il cuoco tutto ciò è un vanto: “Non serviamo cibi precotti. Tutto ciò che arriva a tavola è stato acquistato al mercato e scelto personalmente. In fondo a casa non ci piace mangiare cibi inscatolati e perché dovremmo dare loro pietanze che noi stessi non mangeremmo?”. Così, sotto lo sguardo vigile di padre Giovanni, responsabile della struttura, i ragazzi trascorrono il loro tempo in armonia. C’è persino chi, nei giorni di Ramadan, ha potuto avere il pasto servito negli orari più consoni per i musulmani praticanti.
Per la stessa ragione, è ormai tempo che padre Giovanni invoca la costruzione di un’altra struttura per il Centro: “Avremmo bisogno di nuovi spazi in cui permettere ai fratelli delle diverse religioni di raccogliersi liberamente in preghiera”. Quel che hanno potuto fare, per ora, è dedicare una piccola stanza del centro al culto delle diverse religioni in uno spirito che è tutto di condivisione. Quel che sarà dei ragazzi afghani nell’anno appena iniziato, nessuno lo sa. Quel che si spera è che qualcuno si faccia carico della loro condizione scantonando i cavilli burocratici che vieppiù li costringono alla strada. E’ noto che il riconoscimento della loro minore età li aiuterebbe a essere ospitati in case famiglia ma, talvolta, anche ciò non gli viene riconosciuto. Ad oggi, la pratica più diffusa per l’accertamento anagrafico è la radiografia ossea che dovrebbe certificare, in modo inconfutabile, gli anni del ragazzo. Eppure, secondo una nota diffusa dalla questura e confermata da numerosi specialisti, tale metodica è definita inattendibile e nociva della salute dei ragazzi, se ripetuta di frequente. Così per i minori senza documenti c’è poca speranza. Sarà per questo che Shafi e suo fratello Mohager di appena 17 anni hanno già abbandonato il nostro Paese e al momento della stampa di questo articolo saranno già in Inghilterra: lì sperano di essere riconosciuti come esuli politici.
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“Save the children”

Il 20 ottobre scorso, Save the Children ha presentato al governo e agli enti locali un documento dal titolo “Proposta di modifica di alcuni articoli del testo unico 286/98 per una migliore tutela dei diritti dei minori stranieri”. Allo stato attuale - rileva l’organizzazione – le questure applicano un’interpretazione restrittiva della legge Bossi-Fini per quato riguarda il rilascio di un permesso di soggiorno al compimento della maggiore età. Il permesso viene infatti concesso solo a quei minori che sono entrati in Italia prima di aver compiuto i 15 anni e che abbiano seguito un progetto d’integrazione per due anni. Coloro che invece sono arrivati in Italia dopo i 15 anni, al compimento della maggiore età diventano irregolari anche se sono stati affidati e hanno seguito un percorso d’integrazione scolastica, formativa e lavorativa.
Questa interpretazione della legge – sottolinea il documento di Save the Children – è illegittima in quanto contraria alle sentenze della Corte Costituzionale del 2003 e Consiglio di Stato del 2005, in base alle quali un permesso di soggiorno può essere rilasciato anche ai minori affidati o sottoposti a tutela che siano entrati in Italia dopo il compimento dei 15 anni. Inoltre, tale prassi ha conseguenze molto negative perché disincentiva i minori che sono entrati a 15 anni compiuti (la maggior parte dei minori non accompagnati) a seguire un percorso d’integrazione: sapendo infatti di non poter ottenere il permesso di soggiorno, una volta raggiunti i 18 anni, imboccano strade diverse, incluse quelle di marginalità e illegalità. Per contro, questa interpretazione incoraggia i bambini a entrare in Italia prima dei 15 anni, creando una fascia di minori non accompagnati ancora più vulnerabili e a rischio.

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