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Aprile/2007 - Articoli e Inchieste
Medioriente
Fra lo sciita e il sunnita provo a mettere le dita
di Belphagor

Una nuova strategia della Casa Bianca
da portare avanti in Iraq, inserendosi
nella guerra civile in corso
con un mutamento di rotta nelle scelte
tra i contendenti: nel mirino, l’Iran, la Siria
e i loro alleati libanesi di Hezbollah, in accordo
con l’Arabia Saudita, e non disdegnando
il concorso dell’estremismo islamico


Una exit strategy per andarsene dall’Iraq con il minor danno possibile? O piuttosto una nuova entry strategy per rimanervi cercando di trarre qualche vantaggio da una situazione caotica che ormai sarebbe persino riduttivo definire “guerra civile”? Per il presidente George W. Bush e il suo vicepresidente Dick Cheney, entrambe le scelte si presentano come un azzardo, ma la seconda avrebbe ai loro occhi se non altro il pregio della novità, del rilancio a carte coperte, e magari con qualche asso nella manica.
Sarebbe banale ripetere che il conflitto in Iraq è stato un errore che ha portato a un disastro: presentato all’inizio nel quadro della “guerra al terrorismo”, ha prodotto un’espansione del terrorismo che Osama bin Laden da solo non sarebbe mai riuscito a realizzare. In un’intervista alla Cbs del gennaio scorso, Bush ha ammesso che Saddam Hussein non aveva quelle armi di distruzione di massa che lo stesso Bush si diceva sicuro detenesse (aggiungendovi dei rapporti con al-Qaeda, rivelatisi inesistenti), ma si è giustificato asserendo che “tutti ne erano convinti”. In realtà, non solo alcuni alleati europei, come la Francia e la Germania, ma anche la Cia diceva esattamente il contrario. Poi il presidente (sempre seguendo i suggerimenti del suo vice factotum) aveva mutato versione, sostenendo che Saddam Hussein era un tiranno sanguinario (giudizio incontrovertibile, ma lo era da circa trent’anni) e comunque andava abbattuto. L’Iraq era stato “liberato”, e di conseguenza condotto sul cammino della democrazia.
Nei fatti, è accaduto quello che tutti sanno. E che alcuni osservatori, anche americani, prevedevano già da prima del conflitto. George W. Bush non ha vinto la guerra in Iraq, e non per insipienza sua o scarsa capacità dei militari: non l’ha vinta perché nessuno avrebbe potuto vincere quella guerra assurda. Anzi, per la precisione, nessuno tranne uno: l’Iran. Già, proprio il Grande Nemico, l’Iran degli ayatollah, guidato dal “pazzo” Mahmud Ahmadinejad, che senza muoversi è stato sbarazzato dell’avversario di Baghdad, e ha ricevuto in regalo il controllo degli sciiti iracheni, la maggioranza della popolazione. L’Iran con il suo satellite di Damasco, la Siria, anch’essa iscritta dal Dipartimento di Stato Usa nella lista degli “Stati canaglia”. La Siria che, dopo 26 anni, ha riallacciato il rapporto con un governo iracheno, quello di Al Maliki, sostenuto dagli americani
E allora, stando così le cose, non c’è da stupirsi troppo se Bush, pur non potendo ammettere di aver commesso un errore dopo l’altro, pensi a un cambiamento di rotta. Sì, ma come?

* * *
Il settimanale The New Yorker ha pubblicato nel marzo scorso un’inchiesta (ripresa da Internazionale) di Seymour Hersh, uno dei più noti giornalisti investigativi americani, vincitore del Premio Pulitzer nel 1970, più volte inviato in Iraq, esperto di Medioriente, autore del libro “Catena di comando” (Rizzoli, 2004). Seymour Hersh è uno di quei Signori del Quarto Potere che a Washington conoscono tutti quelli che contano, e riescono a trarre dalle informazioni raccolte analisi più precise di quanto spesso facciano gli stessi governanti. “Per contrastare l’Iran, Paese a prevalenza sciita – scrive, introducendo la sua inchiesta - la Casa Bianca ha quindi deciso di rivedere da cima a fondo le sue priorità. L’amministrazione Bush – in collaborazione con l’Arabia Saudita, Paese a maggioranza sannita – conduce da tempo operazioni clandestine in Libano per indebolire Hezbollah, l’organizzazione sciita appoggiata dall’Iran. Inoltre gli Stati Uniti hanno preso parte ad altre azioni contro l’Iran e la Siria, sua alleata. Queste attività hanno avuto come effetto collaterale quello di rafforzare i gruppi estremistici sunniti che concepiscono l’islam come una religione militante, sono ostili all’America e simpatizzano con al-Qaeda”.
E si presenta la prima contraddizione di questa nuova strategia: sono i ribelli sunniti a combattere in Iraq i soldati americani. E sunniti sono i terroristi di al-Qaeda, di varie nazionalità, penetrati nel Paese in seguito alla rapida sconfitta dell’esercito di Saddam Hussein. Dopo l’occupazione l’amministrazione Bush aveva ritenuto conveniente appoggiare la maggioranza sciita – che per molti anni Saddam aveva brutalmente oppresso -, organizzando rapidamente delle elezioni che dovevano portare a un governo dominato, appunto, dai leader sciiti. Il risultato di questa politica è stato che –mentre nel nord si è consolidata una regione controllata dai curdi di fatto indipendente -, e nel resto del Paese è andato estendendosi lo scontro sanguinoso tra le due comunità religiose, il governo di Nuri al Maliki, pur dicendosi amico dell’America, ha intensificato i suoi rapporti con Teheran e con Damasco. E i militari americani devono guardarsi anche dalle milizie del leader estremista sciita Moqtada Al Sadr, fortemente sostenuto con armi e denaro dal governo iraniano.
Evidentemente, sia nella pianificazione della guerra in Iraq, sia nelle posizioni assunte successivamente, non si era tenuto sufficientemente conto del fattore religioso, che nel Medioriente ha sempre pesanti risvolti politici. L’Iraq – una nazione creata artificialmente dalla Gran Bretagna negli anni ’20 del secolo scorso mettendo insieme regioni abitate rispettivamente da sciiti, sunniti e curdi – dal 1970 era tenuto unito da una dittatura ferrea, implacabile, che non lasciava spazio alle rivendicazioni etniche. Saddam era sunnita, ma fondamentalmente laico: detestava, e temeva, gli estremisti islamici di qualsiasi osservanza, che lo definivano un tiranno apostata, non aveva mai consentito a Osama bin Laden di mettere piede in Iraq, opprimeva, e talvolta massacrava, gli sciiti e i curdi; i primi perché simpatizzavano con l’Iran, i secondi perché rivendicavano uno Stato indipendente. L’altro acerrimo nemico di Saddam Hussein era la Siria, alleata dell’Iran, dove il 75% della popolazione è sunnita, ma il potere – presidenza, esercito, servizi segreti - è nelle mani della minoranza alauita (14%, una setta eretica di marca sciita) attraverso la famiglia al-Asad, il padre, Hafez, morto nel 2000, e il figlio, Bashar, attuale presidente.
Se nel passato vi è stata poca preveggenza – malgrado le messe in guardia della Cia -, ora, per un mutamento di rotta, si richiede accortezza e discrezione. Secondo Seymour Hersh, “I personaggi chiave dietro questa sterzata strategica sono il vicepresidente Dick Cheney, il viceconsigliere per la sicurezza nazionale Elliott Abrams, l’ambasciatore statunitense in Iraq , Zalmay Khalilzad, candidato a rappresentare gli Usa all’Onu, e infine il principe Bandar bin Sultan, consigliere per la sicurezza nazionale del governo saudita. Condoleezza Rice si è impegnata nella definizione della politica estera ufficiale, ma le operazioni clandestine farebbero capo a Cheney”. Un consulente della Casa Bianca ha spiegato a Hersh che i Paesi a maggioranza sunnita “erano terrorizzati dalla prospettiva di un rafforzamento degli sciiti, e la scommessa statunitense sugli sciiti moderati dell’Iraq suscitava un malcontento crescente. A questo punto non possiamo certo annullare le conquiste che gli sciiti hanno fatto in Iraq, però possiamo arginarle”. E Vali Nasr, esperto di Medioriente, autore di vari saggi su Iraq e Iran, ha detto al giornalista: “Nel governo statunitense si è svolto un ampio dibattito su quale sia il pericolo maggiore: l’Iran o gli estremisti sunniti. Secondo i sauditi e secondo alcuni esponenti dell’amministrazione Bush, la minaccia più grave viene dall’Iran, mentre i sunniti radicali sono un nemico minore. E’ una vittoria della linea saudita”.
* * *
L’Arabia Saudita, che è presente nello staff dirigenziale di queste manovre con il principe Bandar bin Sultan, una figura di spicco nella famiglia reale di Rijad. Per 22 anni, fino al 2005, Bandar è stato ambasciatore a Washington, dove godeva di un prestigio molto superiore a quello degli altri diplomatici. Alla Casa Bianca i presidenti si succedevano, ma Bandar vi aveva sempre libero accesso, forte del ruolo di rappresentante del più grande produttore mondiale di petrolio. E stato appunto il petrolio a creare un’amicizia di vecchia data tra lui e Dick Cheney, ma il principe aveva potuto creare attorno a sé un’aura di popolarità grazie alle generose elargizioni distribuite a tutti i livelli governativi: Rober Baer, ex agente della Cia, con funzioni dirigenziali in Iraq, Iran, Libano, Siria, Asia centrale e Nordafrica, autore del libro “Dormire con il diavolo” (Piemme, 2004), scrive: “Washington ha una certa familiarità con il denaro facile, ma non aveva mai visto niente del genere. Sembrava una fonte inesauribile. In poco tempo i sauditi cominciarono a disseminare denaro ovunque, come concime nei campi d’inverno. La Casa Bianca tese la mano per finanziare progetti cui teneva e che il Congresso non voleva o non poteva permettersi di sostenere, da una guerra in Afghanistan a una in Nicaragua. Tutti i pensatoi di Washington, dal teoricamente imparziale Middle East Institute al Meridian International Center, prendevano soldi dai sauditi. La macchina del consenso di Washington – lobbisti, agenzie di pubbliche relazioni e avvocati – ci campava sopra, così come le istituzioni benefiche dell’alta società, come il John Kennedy Center for the Performing Art, il Children’s National Medical Center, e tutte le biblioteche presidenziali degli ultimi trent’anni. Il denaro saudita filtrava anche tra la burocrazia. Qualunque funzionario di Washington con un minimo di intelligenza sa che stando dalla parte giusta riuscirà ad accedere alla mangiatoia saudita … Con simili prospettive di guadagno, non ci si stupisce che i burocrati di Washington non abbiano il coraggio di mettersi contro i sauditi”. Nel suo libro, Baer sottolineava che alla Cia era sempre stato vietato di indagare sui rapporti tra la famiglia reale saudita, compreso il principe Bandar, e le organizzazioni estremiste islamiche sunnite, comprese quelle molto vicine ai terroristi di al-Qaeda e ai Fratelli Musulmani, generosamente sovvenzionate con il fine di blandirle e, possibilmente, controllarle.
Bandar bin Sultan era al fianco del re Abdullah quando, nel novembre scorso, Dick Cheney ha compiuto una visita lampo a Rijad. Il monarca e il suo consigliere per la sicurezza nazionale – secondo quanto rivelato dal New York Times, hanno avvertito il vicepresidente che nel caso di un disimpegno americano in Iraq, a di un conseguente passaggio delle consegne all’attuale governo di Baghdad, l’Arabia Saudita avrebbe sostenuto a fondo i ribelli sunniti. Il contrasto tra i Saud e l’Iran data da quando a Teheran si era installato, con Khomeini, il regime teocratico degli ayatollah, e si è acutizzato dalle “intrusioni” iraniane nella provincia orientale della penisola arabica, ricca di giacimenti petroliferi, abitata da una minoranza sciita che recentemente ha manifestato, con attentati terroristici, una netta tendenza alla rivolta.
A questo proposito, Seymour Hersch ha raccolto il parere di Vali Nasr: “L’unico esercito in grado di arginare l’Iran – quello iracheno – è stato distrutto dagli Usa. L’Iran potrebbe costruire la bomba atomica, e comunque ha un esercito di 450mila uomini, mentre quello saudita ne ha 75mila. I sauditi hanno rapporti molto stretti con i Fratelli Musulmani e con i salafiti (sunniti radicali, n.d.r.). L’ultima volta che l’Iran è stato una minaccia, i sauditi sono riusciti a mobilitare il peggio dell’estremismo islamista. Questa gente è come il genio della lampada: una volta uscita, è impossibile ricacciarla dentro”.

* * *
In uno scenario certo molto diverso da quello degli anni ’80 – quando sauditi e servizi americani finanziavano e armavano gli jihadisti, fra i quali Osama bin Laden, perché combattessero in Afghanistan contro i sovietici e il regime da loro sostenuto -, la storia potrebbe ripetersi. “Ma questa volta – scrive Hersh – mi ha detto il consulente del governo americano, Bandar e altri esponenti sauditi hanno garantito alla Casa Bianca che ‘terranno d’occhio gli integralisti. Il messaggio che ci hanno inviato è questo: ‘al-Qaeda è una nostra creatura, quindi siamo in grado di controllarla’”.
Per quanto riguarda il problema palestinese, Bush, Cheney e i sauditi avrebbero convinto il governo di Gerusalemme dell’efficacia di questa nuova strategia nel garantire la sicurezza di Israele, indirizzata com’è a contrastare la minaccia rappresentata dall’Iran, e dai suoi alleati: la Siria, Hezbollah in Libano, e Hamas nei Territori palestinesi. E mentre i sauditi ritengono di poter esercitare serie pressioni su Hamas per convincere il movimento islamista palestinese ad allentare i legami con Teheran, il Libano si presenta come una zona ad alto rischio di destabilizzazione, con il governo di Fouad Sinora – sostenuto da Washington, da Rijad e dall’Unione Europea – indebolito dalla violenta opposizione degli sciiti di Hezbollah. Dopo l’ultimo conflitto con Israele- concluso con la presenza dell’Unifil sulla frontiera fra i due Paesi (vedi gli articoli del nostro inviato in Libano sul precedente numero di Polizia e Democrazia) -, lo sceicco Hassan Nasrallah, che nega apertamente a Israele il diritto di esistere, ha acquisito un carisma diffuso soprattutto fra gli sciiti di tutto l’Islam.
Nel dicembre scorso, Seymour Hersh ha potuto incontrare Nasrallah, in uno dei tanti rifugi nei quali si sposta in gran segreto, per sfuggire ai servizi israeliani, giordani, e anche a organizzazioni sunnite legate ad al-Qaeda. Le dichiarazioni dello sceicco, che causò il conflitto dell’estate scorsa facendo rapire due soldati israeliani oltre la frontiera, suonano piuttosto enigmatiche. “Volevamo solo fare dei prigionieri per usarli come moneta di scambio – ha detto – Non avevamo alcuna intenzione di trascinare tutta la regione in una guerra”. E ancora: “I mezzi d’informazione di tutto il mondo hanno montato una campagna colossale per mettere le parti l’una contro l’altra. Secondo me è una manovra dei servizi segreti statunitensi e israeliani”.
Nasrallah ha asserito che Bush vuole la spartizione dell’Iraq: “Non è vero che l’Iraq è sull’orlo della guerra civile: questa guerra c’è già. Ed è in corso anche una pulizia etnico-religiosa. Lo scopo delle uccisioni e degli sgomberi forzati è quello di porre le premesse della spartizione dell’Iraq, creando tre settori diversi, etnicamente e religiosamente ‘puri’. Entro uno o due anni al massimo ci sarà una zona totalmente sannita, una sciita e una curda. Verrà un giorno in cui Bush potrà dire: io non posso fare nulla, gli iracheni vogliono la spartizione del loro Paese, e io rispetto i desideri del popolo”. Secondo lo sceicco, la Casa Bianca punta egualmente alla spartizione della Siria, del Libano, spingendo questa tendenza all’Arabia Saudita e al Nordafrica. E ha concluso: “Israele finirà per diventare lo Stato più solido della regione”.
Nell’insieme, più che un’analisi geopolitica ragionata sembra una calcolata attribuzione di intenti apocalittici ad altri, per giustificare le sue azioni. Malgrado tutti gli errori commessi, l’amministrazione Bush non ha mai nemmeno preso in considerazione una spartizione dell’Iraq, che tra l’altro darebbe agli sciiti il possesso esclusivo di una parte rilevante dei giacimenti petroliferi. E ha tutto l’interesse a conservare il Libano unito, sia pure con un peso ridotto di Hezbollah.
Detto questo, il leader del “partito di Dio” merita attenzione. Richard Armitage, ex vicesegretario di Stato di Bush, l’uomo più furbo del Medioriente; e il già citato Robert Baer, che in passato aveva giudicato Hezbollah un movimento terrorista al soldo dell’Iran, oggi lo vede in una luce diversa: “Gli arabi sunniti si preparano a un conflitto di dimensioni enormi, perciò avremo bisogno di qualcuno che protegga i cristiani del Libano. Un tempo l’avrebbero fatto Francia e Stati Uniti. Oggi, invece, saranno Nasrallah e gli sciiti”. Inoltre, Baer ritiene significativo che lo sceicco si sia astenuto dallo scatenare, nell’estate scorsa, un’ondata di attentati terroristici contro obiettivi israeliani e americani in tutto il mondo: “Nasrallah poteva benissimo tirare il grilletto, e invece non lo ha fatto”.
Un altro politico libanese, Walid Jumblatt, storico leader dell’agguerrita minoranza drusa, sostenitore del governo Sinora, ha confidato a Hersh di aver incontrato a Washington, nell’autunno scorso, Dick Cheney: al vicepresidente, Jumblat aveva detto che se voleva organizzare qualche operazione efficace contro la Siria avrebbe fatto bene a rivolgersi ai Fratelli Musulmani siriani.
Il consiglio a prima vista potrebbe apparire scioccante. I Fratelli Musulmani, movimento integralista fondato nel 1928 in Egitto, dove è sempre stato osteggiato (Qutb, l’ideologo, venne fatto impiccare da Nasser nel 1966), e la sua dottrina sannita waafita ha ispirato molti gruppi terroristi, come al-Qaeda. Benevolmente ospitati in Arabia Saudita, i Fratelli sono da tempo ai ferri corti con il regime siriano: nel 1982 Hafez el Assad represse una loro rivolta bombardando la città di Hama per una settimana, con un bilancio di migliaia di vittime. In Siria l’appartenenza ai Fratelli Musulmani è punita con la pena di morte. Per finire, come la classica ciliegia sulla torta, i Fratelli Musulmani sono nemici dichiarati degli Stati Uniti e di Israele. Però, stando a quanto dice un ex alto funzionario della Cia, i Fratelli siriani starebbero egualmente ricevendo degli aiuti: “Gli americani hanno fornito aiuti politici e finanziari. Adesso i finanziamenti sono prevalentemente sauditi, ma l’impegno americano continua”. Naturalmente, nulla è semplice in questo groviglio antagonismi e di interessi contrastanti. Lo stesso Jumblatt, riferisce Hersh, aveva detto a Cheney, che “nel mondo arabo, e soprattutto in Egitto, c’è chi non apprezzerà l’aiuto dato ai Fratelli Musulmani. Ma se non affrontiamo la Siria, ci ritroveremo a dover condurre una lunga lotta contro Hezbollah in Libano. Una lotta che potremmo anche non vincere”.
Quindi, il via alle operazioni “speciali” sarebbe stato già dato da alcuni mesi. Senza che venga informato il Congresso, al quale non è necessario chiedere di votare lo stanziamento di fondi data la disponibilità saudita a pagare i conti; ed evitando il controllo da parte della Cia, che – stando a una fonte di Hersh – “continua a chiedere: che diavolo sta succedendo? Sono terrorizzati, perché hanno l’impressione di trovarsi di fronte a una specie di ora del dilettante”. Del resto, alcuni esponenti, sciiti, del governo di Baghdad da qualche tempo denunciano il fatto che una parte dei finanziamenti ai guerriglieri sanniti proviene direttamente dall’Arabia Saudita. E affermano che una nuova formazione sedicente sciita, implicata negli scontri di Najaf del gennaio scorso, sarebbe in realtà organizzata da elementi sunniti, ex guardie di Saddam Hussein, e da elementi stranieri, legati ad al-Qaeda e aiutati dall’“estero”.

* * *
Situazione intricata, e non poco imbarazzante che rende piuttosto difficile valutare i piani della Casa Bianca – quelli ufficiali e quelli taciuti – fino alle elezioni presidenziali del novembre 2008. Fino ad allora Gorge W. Bush sarà il comandante supremo, e afferma di voler superare gli ostacoli posti dal Parlamento alla “sua guerra”.
D’altra parte, nemmeno i democratici pensano di potersene andare dall’Iraq “sic et simpliciter”, come Nixon e Johnson fecero in Vietnam. Le due guerre sono profondamente diverse. Tanto per dirne una, all’epoca del conflitto vietnamita non esisteva un movimento terrorista esteso a diversi Paesi. In un’intervista al New York Times (pubblicata da La Repubblica) del 15 marzo, la senatrice Hillary Clinton, candidata alla nomination democratica per le elezioni presidenziali, ha detto: “Ciò che erediterà il nuovo presidente non è del tutto chiaro, ma potremmo riassumerlo più o meno in questi termini: una violenza settaria persistente; nessuna risoluzione concreta delle divergenze politiche in corso tra gli iracheni; una regione sconvolta, se non addiruttura instabile, che cerca di comprendere riguardo all’Iraq; una testa di ponte dei ribelli sunniti e degli agenti di al-Qaeda; i turchi sempre più preoccupati per quanto sta accadendo tra i curdi. E potrei continuare”. Augurandosi che l’aumento delle truppe voluto da Bush abbia successo (“ma non lo credo”), e che si aprano trattative con Iran e Siria, la senatrice ha detto di ritenere che “abbiamo una missione militare da portare avanti, oltre che politica, consistente nel cercare di contenere gli estremismi”. Con quanti soldati? “Un numero molto inferiore all’attuale”, e un diverso dispiegamento, fuori di Baghdad. E ha aggiunto: “Ho parlato in privato con molti generali, colonnelli, capitani dell’esercito, e ho riscontrato grande dissenso su ciò che stiamo facendo al momento, su come lo stiamo facendo, e sulle possibilità di successo che possiamo avere. Credo sia necessario che l’attuale leadership lasci perdere completamente ogni discorso ideologico, e cerchi di dare un’occhiata spassionata alla situazione in cui ci troviamo”.
Diciamo che i “discorsi ideologici” in questa sciagurata vicenda sono sempre venuti dopo, per cercare di conferire una parvenza etica (come l’“esportazione della democrazia”) a quello che veniva fatto. Allo stato attuale delle cose, tutte le vie d’uscita proposte sono semplici ipotesi da verificare – ammesso che ve ne sia il tempo -, compresa, beninteso, la “nuova strategia” elaborata da Dick Cheney e dai suoi amici sauditi. Di sicuro, per l’inquilino della Casa Bianca e i suoi collaboratori, c’è solo da chiedersi, parafrasando il linguaggio della Cia: “Ma perché diavolo siamo andati a fare la guerra in Iraq?”

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