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Aprile/2007 - Articoli e Inchieste
Patologie
Finire sul lastrico è molto probabile
di Giada Valdannini

L’Italia è il Paese europeo che spende
di più per scommesse e lotterie in rapporto
al reddito procapite: 271 euro. E le persone
che scommettono regolarmente sono
35 milioni, e un italiano su sei è un giocatore


Vista la difficoltà d’arrivare a fine mese, sono in molti a sfidare la dea bendata col malcelato desiderio d’un guadagno facile e immediato. E’ per questo che li vedi rintanarsi in bar e sale da gioco per affidare i pochi risparmi alla fortuna, scommettendo su essa per uscire da una quotidianità fin tropo pesante. Solo che ad attenderli, invece, c’è la dipendenza. Quella da videopoker.
Se capita di osservarli, entrando in un locale, sembrano spesso persone chiuse nel loro piccolo mondo fatto di gesti – mosse – che dovrebbero alla meglio assicuragli il jackpot o almeno il pareggio di partita. Se ne stanno tutti concentrati a prevedere le azioni della macchina senza sapere – forse – che è tutto davvero lasciato al caso. E le persone che vedi davanti ai videopoker non sono solo quelle che immagini in una bisca: c’è anche la donna che torna con le buste della spesa in mano, il giovane col pallino del gioco, l’anziano che frequenta abitualmente il bancone del bar e, non più di rado, immigrati che si sono fatti contagiare dall’azzardo. Solo che c’è una soglia – a detta degli specialisti – tra il giocare sano e l’ossessione: quella per cui mettere mano al portafoglio è un lusso che ci si concede ogni tanto. Quando il bisogno del videopoker diventa quotidiano, qualche equilibrio è saltato. Tanto più che si rischia di entrare in un’autentica ludopatia (malattia del gioco). Una sindrome che minaccia soprattutto le persone meno abbienti. Secondo le stime attuali, sono gli strati sociali medio bassi a giocare d’azzardo (56%), il 47% di quelli più poveri e il 66% dei disoccupati. Quel che colpisce è che quasi il 50% sarebbero donne. L’Italia inoltre è il Paese europeo che spende di più per scommesse e lotterie in rapporto al reddito pro capite: 271 euro, contro i 230 della Spagna e i 151 della Gran Bretagna. Per un giro d’affari annuo di circa 1.750 milioni di euro con 35 milioni di persone che scommettono regolarmente. Un italiano su sei è un giocatore. Proprio per questo abbiamo cercato di capire chi siano in realtà queste persone, da cosa siano spinte, quale malessere si celi dietro a chi si dimostra pronto a puntare tutto su un videopoker col rischio – anzi l’altissima probabilità – di finire sul lastrico.
Il sole della domenica mattina stenta ancora a farsi largo. L’orologio segna le otto. I marciapiedi sono popolati giusto dalle donne che, pur di non trovare la fila al mercato, si sono alzate di buonora. Alcune si fermano al bar per concedersi un caffè prima di tuffarsi tra i banchi, altre filano dritte verso gli stand e se saranno fortunate otterranno pure lo sconto della prima vendita, come buon auspicio per gli incassi della giornata. Chi si ferma per una tazzina ha già di fronte uno scenario piuttosto chiaro. Il bar è quello di una periferia a nord di Roma. L’odore acre del vino si stampa nelle narici e il pavimento sembra ricoperto di cera spessa e lucida. Solo che invece che di dare l’idea di pulito sembra piuttosto una patina da tirar via con lo scalpello. Il bancone è di quelli anni Settanta, il padrone non l’ha più rimodernato: “Tanto i clienti vengono lo stesso”. Poco più in là, una porticina da cui si accede a uno stanzone separato da una parete fina fina e da una finestra di plastica da cui la cassiera può tenere tutto sotto controllo. “Di là ci sono i giocatori, quelli in fissa coi videopoker”, dice un frequentatore abituale del bar. E soprattutto di là c’è un mondo a parte in cui gli istanti non scorrono come per il resto della città ma lenti, lenti, quasi fuori dal tempo. Nessuno controlla mai l’ora se non verso l’una quando lo pancia inizia a brontolare ed è il momento di levare le tende per un seppur frugale pranzo della domenica. Fino a quel momento, lo stanzone è avvolto dal silenzio o meglio le persone non parlano sono solo i videopoker a emettere quei rumori sinistri in caso di perdita o lo squillo di trombe per la vittoria.
Colpisce il fatto che nessuno si rivolga la parola. Eppure la cassiera, giovane e loquace, racconta che “sono sempre gli stessi. Mancano giusto le donne che la domenica mattina se ne stanno a casa a cucinare per la famiglia”. Per il resto c’è Antonio, il muratore che viene solo la domenica perché durante la settimana lavora e Omar, il giovane senegalese cameriere d’albergo dal lunedì al sabato. La media dei giocatori – lo conferma la ragazza alla cassa – perde molti soldi e di tanto in tanto guadagna qualcosa. Sono perlopiù persone poco abbienti che non potrebbero permettersi esborsi se non oculatissimi. Eppure se ne stanno lì, col pallino di sbancare, affatto attratti dallo svago che può procurare un videogioco: è una lotta – impari purtroppo – per vincere contro una macchina che, però, ha sempre la meglio. Parlando con loro, ovviamente una volta terminata la partita, si ha la sensazione che il videopoker sia una tana, un rifugio fuori dalle inquietudini quotidiane. Quelli che appaiono come giocatori incalliti sono più spesso persone che hanno pochi stimoli nella vita, che arrivano a confondere lo svago con la dipendenza. E, come se non bastasse, all’azzardo qualcuno affianca l’alcol: immancabile presenza nello stanzone attiguo al bar. Oltre ai bicchieri sparsi ovunque, sui tavolini, a terra, c’è qualche birra appoggiata distrattamente sulla cornice di legno del biliardo che campeggia – ignorato – al centro dell’ambiente. I giochi di gruppo come le carte sono stati completamente soppiantati: ognuno se ne sta per i fatti propri. Guai a disturbarli mentre sono all’opera, si rischia di assistere a scaramucce verbali affatto piacevoli. L’andazzo del gioco lo si legge sul loro volto. Se li vedi corrucciati, vuol dire che stanno avendo la peggio ma non smetteranno finché non perderanno anche l’ultimo quattrino. A trasformare i giocatori in autentici automi c’è poi il fatto che a distribuire i gettoni non sia la commessa ma una macchina blu che converte moneta e spicci in quelli che in inglese si chiamano ‘coins’. Nemmeno il pretesto di incontrare più volte gli occhi di una persona che, tra un’ordinazione e l’altra, cambia i soldi; solo una macchina che trasforma l’ossessione in una nuova partita. Sta di fatto che nessuno dei giocatori ammette di essere completamente in balia del gioco: neppure quelli che al bar ci vanno tutti i giorni. Mentono come la maggior parte delle persone affette da dipendenza e non riconoscono nemmeno a loro stessi di aver bisogno d’aiuto.
Neppure la signora Dina, che ci passa la settimana facendo la cresta sui soldi della spesa. Fuori casa non ha mai lavorato. Il marito le dà i soldi col contagocce e lei un giorno ha cominciato a giocare: ‘Vedi un po’ che me metto un po’ di soldi da parte’. Ignorando però che sarebbe meglio accantonarli piuttosto che regalarli a una macchina – o meglio a un gestore – che ne ha già in quantità. “Se mio marito sapesse che gioco, mi darebbe un sacco di botte”. Lei è l’unica a sbottonarsi di più, a riconoscere – anche se con esitazione – che il gioco le nuoce al portafoglio e all’umore: quando perde sta così giù che gira per il quartiere un’oretta prima di farsi passare la rabbia. Una volta – racconta – era così presa dal gioco che non si è accorta nemmeno che era arrivata l’ora di pranzo e il marito, vedendola rincasare alle tre, le ha fatto una lavata di capo che non si dimenticherà facilmente. Dina, per ora, non ha avuto coraggio di rivolgersi a qualcuno, ignora che ci siano psicologi e associazioni pronti a darle una mano. Un’associazione come la Siipac (Società italiana di Intervento sulle Patologie Compulsive) che, per altro, ha sede anche a Roma.
Toccanti le storie delle persone che vi si sono rivolte. Quasi tutte per ‘uscire dal gioco’ ma in fondo perché avevano bisogno di ascolto, condivisione. Avevano bisogno di non sentirsi sole. Come il ragazzo che ha cominciato a giocare nel ’95 con gli amici fino ad arrivare al ’99 quando la sua passione per l’azzardo si è trasformata in un’autentica compulsione.
Ha iniziato ad essere aggressivo coi genitori, a chieder loro sempre più soldi a ricorrere ai farmaci sotto consiglio medico per poi finire con l’utilizzarli per togliersi la vita. E così per due volte, tra astinenza da gioco e supporto psicologico fino ad arrivare al contatto con l’associazione con cui inizierà il percorso terapeutico una volta uscito dalla clinica psichiatrica che attualmente lo ospita. Oltre alla sua, tra le tante, c’è la testimonianza di una donna del nord. Ha una gemella e un fratello più grande ed ha iniziato a dilapidare i suoi soldi al video poker dopo una storia affatto semplice. Sebbene racconti un’infanzia e adolescenza piuttosto serene, non omette l’abuso sessuale che subì da un amico di famiglia a otto anni, il primo rapporto completo a 17 contro volontà e un matrimonio con un marito distratto e infedele. Così inizia la sua sindrome da gioco e - per sua ammissione - cerca protezione nello sfidare una macchina, nell’impossibilità di confrontarsi con la sua vita. A render ancor più tragica la storia, il fatto che tornando da un casinò in Slovenia, dopo averla spinta a farsi accompagnare, ha perso la madre in un incidente automobilistico.
Insomma, una vita per cui il gioco ha significato perdite immani di denaro, di affetti e di dignità. Ma oggi, seppur triste, questa donna si ritiene fortunata. Grazie alla Siipac è uscita dalla dipendenza dal gioco: “Con loro mi sono resa conto che l’azzardo è stato per me una fuga e mai un conforto. Mi sento miracolata ad essere uscita da quel gorgo”.

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