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Maggio-Giugno/2007 - Articoli e Inchieste
Ecologia
Un’Italia da discarica
di Eleonora Fedeli

Tra le discariche
(spesso abusive e
gestite dalle ecomafie) e gli inceneritori
(“macchine per fare soldi” che producono
soprattutto inquinamento atmosferico)
la soluzione starebbe nel ridurre i rifiuti, e nel
diffondere capillarmente la raccolta differenziata.
Una strada già scelta da 23 Comuni in provincia
di Treviso e da 5 nel Salernitano. Sull’esempio
delle metropoli americane e australiane


Gli anni Sessanta non sono stati solo gli anni della Vespa e della Cinquecento, del primo uomo sulla luna, della minigonna di Mary Quaint, dei Beatles e dei Roling Stones, ma anche quelli del boom economico e della sfrenata corsa al benessere, della diffusione della plastica e della cultura "usa e getta". Gli anni in cui nasce il termine rifiuto, prima sconosciuto in una società prevalentemente contadina, in cui i vestiti passavano da una generazione all’altra e in cui i cibi venivano utilizzati per concimare la terra e nutrire gli animali.
Ad oggi, il consumo bulimico delle “cose” è una delle massime rappresentazioni della nostra società. Il problema è che queste “cose” nascono, crescono ma non muoiono, sopravvivendo a noi e ai nostri figli. Secondo i dati Eurostat, l’Italia ogni anno produce 533 kg di rifiuti organici per abitante, superando complessivamente i 30 milioni di tonnellate e collocandosi al quarto posto in Europa per produzione assoluta di rifiuti urbani. Senza le dovute cautele, si rischia di essere sommersi dalla spazzatura.

Il problema dell’ecocriminalità
Negli ultimi anni, le attività illecite legate allo smaltimento dei rifiuti hanno avuto uno sviluppo allarmante: secondo il Rapporto Ecomafia di Legambiente nel 2006 la criminalità organizzata ha fatturato 23 miliardi di euro grazie al traffico illegale di rifiuti. L’epicentro del fenomeno si colloca nel Mezzogiorno: ai primi quattro posti della classifica dei reati ecomafiosi troviamo Campania, Calabria, Puglia e Sicilia, responsabili del 45,9% dei crimini ambientali (si calcola che ne vengano commessi tre ogni ora). Le organizzazioni criminali lavorano di notte: i camion carichi di rifiuti depositano il materiale in buche apposite scavate senza alcuna cautela ambientale, che vengono immediatamente ricoperte. Accanto all’incontrollata contaminazione del suolo, si moltiplica anche quella delle acque marine, nelle quali viene scaricata l’immondizia che, non potendo essere sotterrata, si accumula sulle spiagge. A volte si creano delle vere e proprie discariche sottomarine, come è accaduto al largo della costa salernitana, dove viene depositato il pericoloso contenuto delle stive, spesso recuperato dalle reti per la pesca a strascico. Per i liquami fognari e i fanghi industriali basta ottenere l’autorizzazione per la costruzione di vasche per l’itticultura e la lombricultura e utilizzarle come discariche. Oppure depositare tutto in qualche fiume o lago.
Queste sono solo alcune delle modalità adottate dai clan camorristi, che hanno fatto guadagnare alla Campania il primato dei crimini ambientali: Qualiano, Giugliano e Villaricca sono i vertici del cosiddetto "triangolo della monnezza", l’area deputata alla sepoltura illecita dei rifiuti, a soli 25 chilometri da Napoli. Qui una volta la ricchezza veniva dagli ortaggi, dalla primizie e dalla Falanghina, oggi dalla diossina, dai metalli pesanti e dai fenoli. E non solo: una volta riempite le buche con i rifiuti pericolosi, la Camorra ci costruisce sopra le case.
La maggior parte dei rifiuti tossici non viene smaltito nelle discariche abusive nostrane: grazie agli ottimi rapporti diplomatici con le mafie altrui, la malavita organizzata controlla un traffico di tonnellate di rifiuti industriali che vengono esportati nei Paesi del Terzo Mondo. La maggior parte delle scorie tossiche finisce in Africa: in Somalia esisterebbe la cosiddetta "strada dei pozzi" (nota a tutti come "strada della cooperazione italiana") che non va e non arriva da nessuna parte, poiché unisce tre enormi discariche abusive. Alla manodopera locale è affidato il compito di sotterrare i rifiuti tossici, sprovvista di qualsiasi protezione e ignara dei gravi rischi per la salute. Altra discarica mondiale è il Mozambico, dove tonnellate di immondizia provenienti da tutti i continenti giacciono in una enorme discarica a cielo aperto.
Se in Africa viene depositato tutto ciò che non può essere riutilizzato, in Cina finisce tutto quello che può essere trattato e reintrodotto nel mercato. Contatori elettronici, computer, circuiti e materiale elettrico di vario tipo vengono trasformati in plastica, bachelite e policarbonati, per essere acquistati dalle fabbriche di materie plastiche italiane o tornare sul mercato sotto forma di oggetti made in China.
Per combattere l’ecocriminalità è importante mettere le Forze dell’ordine nelle migliori condizioni per proseguire l’opera di repressione delle ecomafie: negli ultimi cinque anni sono state concluse 70 inchieste in tutta Italia, con 463 trafficanti arrestati e 1.594 persone denunciate. Purtroppo, però, l’azione dello Stato resta ancora al di sotto della potente minaccia ecomafiosa: decisivo risulterebbe l’inserimento a pieno titolo dei reati ambientali nel Codice penale e il superamento della gestione commissariale dei rifiuti nel Sud, che non ha sconfitto l’illegalità, ma solo deresponsabilizzato le Istituzioni regionali e locali.

Gli inceneritori: niente
si distrugge, tutto si trasforma
Già dalla fine degli anni Trenta, circa 70 città americane utilizzavano impianti di incenerimento. Dopo la seconda guerra mondiale questi si moltiplicarono a vista d’occhio, nonostante la scarsa attenzione all’efficienza della combustione e alla riduzione delle emissioni pericolose. Alla fine degli anni Settanta, però, nonostante si utilizzassero “moderni” sistemi per l’abbattimento degli inquinanti, studi accurati cominciarono a dimostrare che le ceneri emesse dagli inceneritori contenevano alte percentuali di metalli altamente tossici come il piombo e il mercurio. Fu così necessario introdurre più efficienti sistemi di abbattimento dei microinquinanti che, alzando i costi, rendevano meno vantaggiosa la costruzione di nuovi impianti. Nel giro di dieci anni il numero degli inceneritori fu dimezzato e centinaia di progetti furono cancellati.
In Italia c’è chi sostiene che gli inceneritori siano la risposta al problema dello smaltimento dei rifiuti urbani; addirittura sarebbero un ottimo sistema per trasformare la spazzatura in un combustibile che ridurrebbe sensibilmente le emissioni di anidride carbonica nell’atmosfera. Ma a che prezzo?
In Toscana l’inceneritore per antonomasia è quello di San Donnino, che mostra ancora la sua ciminiera di 60 metri al confine tra Campi Bisenzio e Firenze. Ha bruciato fino al 1986, quando le Istituzioni furono obbligate a chiudere l’impianto per motivi igienico-sanitari. Eppure, quando fu inaugurato nel 1973, gli amministratori lo presentarono come la panacea per l’eliminazione dei rifiuti. Si diceva che, grazie all’utilizzo delle nuove tecnologie, dalle ciminiere sarebbero usciti solo innocui vapori d’acqua, depurati dalle polveri e dalle sostanze tossiche.
Nell’estate del 2005 la rivista medica “Epidemologia e Prevenzione” pubblicò uno studio sulla mortalità tra il 1981 e il 2001 nel territorio che circonda San Donnino. I dati della ricerca sono impressionanti: in vent’anni il rischio di morte legato al linfoma di Hodgkin è aumentato dell’84% rispetto a quello suggerito dagli standard europei. Per quanto riguarda il sarcoma dei tessuti molli si è arrivati addirittura al 126%. Recenti studi scientifici hanno dimostrato l’estrema pericolosità delle nanopolveri, costituite da particelle inorganiche più piccole di 2,5 micron, che non vengono trattenute dai sistemi di filtraggio degli inceneritori, anche se di ultima generazione. Se respirate, le polveri di 1 micron arrivano nel sangue in 60 secondi e raggiungono il fegato in un’ora; una volta accumulate nell’organismo, diventano estremamente tossiche ed è impossibile espellerle, perchè non sono né biocompatibili né biodegradabili.
L’impianto di Brescia, il più grande in Europa con le sue 800 mila tonnellate di portata, è l’esempio che i sostenitori dell’incenerimento dei rifiuti amano citare per la sua conclamata avanguardia tecnologica.
Ma, da un documento elaborato dalle associazioni che si sono organizzate per la sua chiusura, risulta che si tratta solamente di una “macchina per fare soldi”. Brescia è la provincia lombarda con il record negativo di rifiuti prodotti, agli ultimi posti in Italia nella raccolta differenziata: si brucia tutto e, più c’è da bruciare, più il rendimento economico dell’impianto è elevato. I cittadini continuano a pagare lo smaltimento e lo Stato finanzia gli inceneritori con una norma ingannevole, che considera i rifiuti energia rinnovabile: in realtà il calore prodotto dalla combustione si disperde nell’atmosfera, contribuendo al surriscaldamento, i cui danni sono tristemente noti. A guadagnare dal ciclo di rifiuti, gestito dal gruppo Asm, è solo una società mista pubblico-privata.
Nella gestione dell’emergenza rifiuti serve un cambio di prospettiva, impegnandosi a conservare le risorse, invece di distruggerle. Non si dovrebbe scegliere il male minore, tra le discariche e gli inceneritori, ma costruire una società in grado di produrre meno rifiuti e di riutilizzare ciò che consuma.

I Comuni "ricicloni"
Per tre anni consecutivi il Consorzio intercomunale Priula, in provincia di Treviso, ha vinto il premio "Cento di questi consorzi", nell’ambito della manifestazione "Comuni ricicloni" inaugurata nel 1994 da Legambiente come riconoscimento alle comunità locali che ottengono i migliori risultati nella gestione dei rifiuti.
Nato nel 1987 dall’associazione di cinque comuni, oggi il Priula ne conta ventitrè e ha un bacino di utenza di 215mila abitanti. Dal 2001 ha rimosso tutti i cassonetti e ha consegnato alle famiglie i contenitori per effettuare la raccolta differenziata “porta a porta”: giallo per la carta; blu per vetro, plastica e lattine; bianco per la frazione verde; marrone per la frazione umida; verde per il rifiuto secco non riciclabile. Il radicale passaggio alla raccolta differenziata “porta a porta” ha permesso di raggiungere risultati incoraggianti, passando dai 451 chilogrammi prodotti per ogni abitante a 317. Con un rilevante investimento nel rinnovo del parco automezzi per un servizio capillare e un "patrimonio" di 350mila cassonetti dotati di microchip, il Consorzio è riuscito a portare la raccolta differenziata al 73%, per un totale di 120mila tonnellate smaltite ogni anno.
La raccolta “porta a porta” si svolge secondo un ecocalendario, che prevede, ad esempio, lo smaltimento della carta ogni 15 giorni; la plastica e il vetro vengono portate nello stabilimento di Musile sul Piave, dove vengono separate e trattate. Si calcola che su 80mila bottiglie di plastica più di 50mila vengano riciclate, assemblate in lastre semirigide utilizzate per i blister di vari prodotti o diventando caldi e comodi pail. Tutto questo non sarebbe possibile solamente grazie all’Amministrazione: fondamentali sono stati la collaborazione e l’impegno dei cittadini che, in poco tempo e con l’aiuto di numerosi call-center aperti su tutto il territorio per risolvere ogni tipo di dubbio, hanno superato le iniziali perplessità e resistenze. Franco Zanata, presidente del Consorzio, sostiene che non bisogna temere l’eventuale rifiuto della popolazione e che, considerate le sue tradizioni e la sua cultura, anche al Sud la politica ambientale adottata dalla Priula produrrebbe risultati eccezionali.
Nonostante al di sotto del Tevere la raccolta differenziata appaia ancora come un miraggio, alcuni casi dimostrano che, quando al Sud ci si organizza, si possono creare delle inaspettate isole verdi e felici. Nella provincia di Salerno, ad esempio, esistono comuni in cui la raccolta differenziata supera il 50% e talvolta raggiunge il 70%. E’ il caso della "Futura San Cipriano", che provvede alla raccolta dei rifiuti di cinque Comuni nella valle del Picentino: tre volte la settimana la società raccoglie porta a porta rifiuti organici, due volte il secco indifferenziato, una volta carta e cartone. Troppo piccole le esperienze trevigiana e salernitana? Anche New York, Canberra e San Francisco hanno scelto di abbandonare l’incenerimento e, grazie a efficaci normative sul riciclaggio, sono riuscite ad incrementare la raccolta differenziata del 20%.

L’archeologia dei rifiuti
Chissà cosa avrebbe pensato Indiana Jones se, invece di andare alla ricerca del Santo Graal, gli avessero proposto di rovistare nei rifiuti per ricostruire le vicende del passato. Impresa, questa, compiuta da un professore di archeologia dell’Università dell’Arizona, che ha dato l’assalto alla più grande discarica del mondo, Fresh Kills, dove fino al 2005 sono stati depositati i rifiuti di New York.
Fresh Kills era una grande palude quando, nel 1948, il comune di New York ha deciso di riempire gradualmente i suoi 1200 ettari con una collina alta 150 metri e contenente 100 milioni di tonnellate di rifiuti. Il lavoro del professor Rathje è cominciato nel 1973 e negli anni ha permesso non solo di approfondire la storia del costume e del comportamento, ma di portare alla luce e di risolvere numerosi problemi scientifici. Ad esempio, ha contribuito alle ricerche sui processi di biodegradazione, mostrando che molti giornali, nelle condizioni in cui sono stati scaricati negli anni 40 e 50, sono ancora intatti e leggibili, nonostante la carta sia considerata il materiale biodegradabile per eccellenza.
L’archeologia dei rifiuti, inoltre, ha messo in evidenza i processi di trasformazione delle materie plastiche a seconda della loro composizione, della natura chimica e delle condizioni di impiego in una discarica reale, non in esperimenti simulati in laboratorio. La rifiutologia si è rivelata un prezioso strumento per la costruzione di discariche più efficienti e ha contribuito a orientare la produzione e i consumi verso materiali più facilmente trattabili e recuperabili.

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