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Agosto-Settembre/2007 - Articoli e Inchieste
Istituti di pena
Aprire una stagione di riforme per tutelare diritti e sicurezza/1
di

Nella relazione dell’Unione delle Camere Penali
Italiane, analisi e proposte riguardanti i diversi
aspetti della detenzione



L’indulto: dall’emergenza
alla ricerca di un regime normale

1. L’indulto non ha di certo risolto i problemi delle carceri. Ha solo evitato che il loro sovraffollamento assumesse dimensioni tali da creare addirittura problemi di ordine pubblico. Si era prossimi al collasso: le 207 carceri italiane, a fronte di una capienza massima di 43.000 posti, ospitavano oltre 60.000 detenuti. A causa (o meglio, anche a causa) del sovraffollamento la qualità della vita negli istituti si era abbassata a livelli di guardia: non solo celle stipate, ma anche carenze di personale penitenziario (agenti, educatori, assistenti sociali, ecc.) e amministrativo, assistenza sanitaria insufficiente, assenza di occasioni di lavoro, suicidi in crescita.
In questa situazione di emergenza la funzione rieducativa e riabilitativa della pena era venuta meno; il rapporto numerico tra detenuti ed educatori e assistenti sociali ha frustrato ogni possibile serio tentativo di intraprendere e seguire, per la maggior parte dei reclusi, percorsi individualizzati così come previsto dall’ordinamento penitenziario. Insomma: la pena come mera retribuzione, la detenzione dei condannati finalizzati esclusivamente a garantire la sicurezza della collettività, in palese violazione dell’art. 27 della Costituzione che impone che le pene non devono essere contrarie al senso di umanità e devono tendere alla rieducazione del condannato.
2. Con l’indulto gli istituti penitenziari hanno ricominciato a respirare.
I detenuti a luglio del 2006 erano quasi 61.000, a fine settembre erano “solo” 38.326 (fonte Dap - Dipartimento Amministrazione Penitenziaria).
Il condono ha, quindi, determinato la scarcerazione di oltre 22mila persone: più del 30% della popolazione carceraria. Ma non ci si illuda: il problema carceri è tutt’altro che risolto.
La legge Finanziaria 2007 ha previsto tagli consistenti (66 milioni di euro) alle spese dell’Amministrazione penitenziaria e saranno penalizzate proprio le voci di bilancio relative alla “qualità” e alla funzione delle carceri e cioè l’assistenza sanitaria, le spese per le attività scolastiche, quelle destinate all’area penale esterna, le mercedi per i detenuti lavoranti, gli interventi per i detenuti tossicodipendenti. E questi tagli non si giustificano certo per il diminuito numero dei detenuti, sia perché la gravissima situazione debitoria dell’Amministrazione penitenziaria ridurrà notevolmente le risorse disponibili.
Particolarmente grave è la situazione dell’assistenza sanitaria per la quale è ancora inattuato il decreto legislativo 230/1999 che, in attuazione del principio dell’universalità del diritto alla salute, prevede il passaggio della medicina penitenziaria al servizio sanitario pubblico. Di fatto l’assistenza sanitaria carceraria, tranne che per alcune Regioni che hanno autonomamente stipulato protocolli d’intesa tra Amministrazione penitenziaria e Servizio nazionale, è devoluta all’iniziativa dei singoli istituti e si dibatte tra mille problemi con un futuro incerto.
La questione è tanto semplice quanto ineludibile: se non si risale alle cause che hanno determinato il sovraffollamento la situazione è destinata a ritornare nell’arco di pochi anni ad essere come quella del luglio 2006.
3. L’indulto ha costituito, quindi, un provvedimento tampone per fronteggiare l’emergenza del carcere, ma l’emergenza non è finita. Il compito dell’Ucpi, in linea con i principi che ne hanno sempre inspirato la linea politica, è quello da un lato di farsi promotrice di modifiche normative che possano contribuire a risolvere i problemi alla sua origine e dall’altro di vigilare affinché la politica, una volta tamponata l’emergenza, non rimuova il problema del carcere, non costituendo lo stesso un problema da risolvere in maniera emergenziale. Proprio la cultura dell’emergenza che ha guidato l’azione politica del legislatore negli ultimi anni è oggi il pericolo più grande, anche nella gestione dei problemi legati al carcere, sul quale l’Ucpi vuole richiamare l’attenzione: quasi che finita l’emergenza è risolto il problema. Una prospettiva così miope e superficiale di legiferare costituisce una delle più rilevanti critiche politiche che l’Ucpi negli anni ha rivolto al legislatore di turno, senza mai dimenticare che la sterile critica non accompagnata dalla proposta non costituisce, a volte, momento di riflessione.
4. L’indulto dà la grande opportunità per risolvere in maniera radicale non solo il sovraffollamento del carcere ma anche tutti i problemi del mondo giudiziario che ruotano intorno ad esso, a patto che si riparta da una riflessione sulle cause che hanno generato il problema risolvendolo con interventi normativi adeguati.
Il contributo che l’Ucpi può e vuole dare è quello di invitare a una comune riflessione sui temi più rilevanti collegati al pianeta carcere in un convegno nazionale.

Una linea legislativa errata

Il comune denominatore dei problemi che hanno generato il sovraffollamento è costituito da quella che può essere chiamata la “deriva legislativa” in materia di esecuzione pena e trattamenti sanzionatori più in generale, iniziata con l’introduzione dell’art. 4-bis nel 1991 fino ai più recenti provvedimenti legislativi. Si è di fatto abrogata la legge Gozzini (normativa di grande civiltà giuridica) con interventi settoriali dettati da intenti esclusivamente repressivi. A tale impostazione normativa ha fatto da corredo un’applicazione della stessa da parte della magistratura basata su orientamenti giurisprudenziali sia in materia cautelare, sia nell’applicazione delle misure alternative alla detenzione ancor più penalizzanti della libertà personale di cittadini indagati e/o condannati.
E’ giunto, quindi, il momento di aprire una riflessione sull’opportunità di rafforzare tutto ciò che sono gli “strumenti alternativi al carcere” come sanzione all’esito del processo penale o nella fase di cognizione.
E’ chiaro che per la riuscita ci vuole non solo l’individuazione tecnico-giuridica degli strumenti e il loro inserimento nell’ordinamento giuridico ma la possibilità che tali “rimedi” alternativi possano costituire valide (anche in termini quantitativi) soluzioni al sovraffollamento delle carceri: ci vuole, quindi, la volontà politica di realizzarli. L’esempio dei lavori di pubblica utilità previsti dalle normative sul giudice di pace è emblematico.
Tale sanzione, sinora, risulta quasi mai applicata anche per la mancata predisposizione di strumenti e mezzi economici atti alla loro realizzazione. (Si pensi alla possibilità di coinvolgimento degli Enti locali territoriali o di associazioni riconosciute impegnate nel volontariato).
Le possibilità di prevedere delle misure alternative al carcere in sede di condanna, da parte del giudice di cognizione, pur con tutte le riserve del caso dovute principalmente alla scarsa dimestichezza della giurisdizione di cognizione a compiere valutazioni finora proprie della fase esecutiva, è una riflessione che merita di essere fatta a condizione di creare le strutture, o rafforzare quelle già esistenti (Uepe), per la loro applicazione concreta.
Per quel che concerne l’anticipazione alla fase di cognizione dell’applicabilità di misure alternative alla detenzione intramuraria, argomento cui pure si discute a livello politico-legislativo, la riflessione deve necessariamente partire da una premessa.
L’applicazione di tali misure, anticipate alla fase di cognizione andrebbe a sovvertire il principio costituzionale sancito dalla “presunzione di innocenza” e non sarebbe giustificato, come invece avviene per le misure cautelari, da esigenze di prevenzione sociale essendo la ratio delle misure alternative finalizzata principalmente ad una rieducazione del reo. Lo strumento che potrebbe consentire tecnicamente l’inserimento di tale istituto nella fase di cognizione è la libera volontà delle parti processuali espresse attraverso il “consenso” delle stesse in una sorta di patteggiamento che investe non solo la quantificazione della pena ma anche le modalità di espiazione della stessa.
Certamente non si può più prescindere dall’individuare strumenti legislativi che creino un serio rafforzamento delle sanzioni penali alternative alla detenzione intramuraria.
In quest’ottica l’Ucpi vede con favore l’estensione dell’istituto previsto dell’ordinamento minorile della “messa alla prova” anche nel procedimento penale ordinario, ma deve contemporaneamente rilevare l’assoluta insufficienza della previsione normativa che prevedendone l’applicabilità solo a pene edittali minime di fatto ne vanifica l’effettiva portata.

La custodia cautelare

1. Una delle cause del sovraffollamento in carcere è da rintracciare nell’uso massiccio della misura cautelare estrema. Trattasi di una scelta di politica giudiziaria dei magistrati che indipendentemente dalla ratio della norma di cui all’art. 275/3 C.p.p. utilizzano la custodia cautelare in carcere come strumento normale anziché eccezionale. Che si debba usare tale misura in via straordinaria è espressamente indicato anche dal dato letterale del cod. 3 dell’art. 275 C.p.p. come modificato nel 1995. La custodia cautelare in carcere infatti può essere disposta soltanto quando ogni altra misura risulta inadeguata. La massima applicazione della misura cautelare carceraria trova stabile ingresso sia nei confronti di cittadini extracomunitari che magari non hanno legami con il territorio e sono anche senza fissa dimora, sia nei confronti di soggetti incensurati e magari alla prima esperienza carceraria anche per delitti di non particolare gravità.
2. Tale dato è significativo di una scelta culturale e politica che valorizza parametri di tutela della collettività e di ripristino della sicurezza attraverso un messaggio esclusivamente repressivo e orientato in modo uniforme verso tutti i cittadini che infrangono la legge indipendentemente dalle singole e specifiche caratteristiche. Custodia cautelare, quindi, come anticipazione di una pena che erroneamente si crede non più espiabile, come strumento coercitivo per ottenere confessioni o come risposta alle richieste dell’opinione pubblica alimentate spesso da campagne mediatiche distorte.
E’ necessario aprire un serio confronto politico e culturale con le forze politiche e con gli addetti al mondo Giustizia al fine di modificare la normativa così da rendere più tassativi i casi in cui sia applicabile la misura cautelare estrema e consentire un più esteso utilizzo della misura cautelare degli arresti domiciliari soprattutto per chi incensurato viene a contatto per la prima volta con circuiti detentivi intramurari.
3. In materia cautelare, quindi, l’Ucpi ritiene che il problema, più che nelle normative, risieda nelle distorte applicazioni delle stesse.
Si potrebbe valutare un intervento normativo che anche modificando l’art. 380 C.p.p. riduca il potere discrezionale della magistratura nell’applicazione delle custodie cautelari a casi tassativamente previsti.

Esecuzione delle pene detentive

1. L’art. 656 C.p.p., che come noto regola il meccanismo di sospensione della pena al momento della definitività della sentenza, va certamente rivisto.
Si deve preliminarmente rilevare che gli interventi normativi succedutisi nel tempo hanno snaturato la norma in oggetto, non rendendo attuabile il meccanismo della sospensione delle pene in una serie di ipotesi su presupposti di presunte e apodittiche pericolosità sociali del condannato.
Tutto ciò ha avuto l’effetto di inserire in circuiti detentivi intramurari, a distanza di anni dal fatto-reato, persone che avevano intrapreso percorsi di distacco dalle devianze o comunque riabilitativi, indipendentemente dal titolo del reato per il quale avevano riportato la condanna. Certamente non esente da colpe, nelle scelte restrittive di politica legislativa, è stata la dilatazione dei tempi di fissazione, da parte dei Tribunali di Sorveglianza, dei procedimenti dei “liberi sospesi” vanificando così ancor di più la corrispondenza temporale tra pena e reato.
2. Nello specifico si ritiene utile indicare alcune proposte di modifica sulle quali riflettere:
a) art. 656, comma 9 lett. a) C.p.p. - dopo le parole “e successive modificazioni” aggiungere “o che abbiano in corso un programma terapeutico di recupero presso i servizi pubblici per l’assistenza ai tossicodipendenti ovvero nell’ambito di una struttura autorizzata”. Del resto non considerare le esigenze e le problematiche di quanti abbiano in corso un programma terapeutico solo a causa del titolo di reato è questione che si pone oltrettutto in conflitto con la modifica intervenuta per i recidivi (legge 21/2/06 n. 49) che ha infatti modificato l’art. 656, comma 9, lett. c) derogando, per tale categoria di soggetti, al divieto di sospensione dell’esecuzione.
b) Tale modifica è ritenuta dall’Ucpi del tutto minimale anche se necessaria. Invece la battaglia politica che intendiamo sostenere è quella della abrogazione delle preclusioni alla sospensione dell’esecuzione della pena di cui all’art. 656 C.p.p., comma 9, lett. a) e c), da realizzarsi con un intervento meramente abrogativo, da coordinare con l’introduzione di termini perentori entro i quali il Tribunale di Sorveglianza deve decidere sulla misura alternativa richiesta. L’Ucpi ritiene che il meccanismo di preclusione della sospensione della pena per 4-bis ordinamento penitenziario e recidivi sia una delle cause del sovraffollamento del carcere anche per l’impossibilità delle strutture penitenziarie e dei Tribunali di sorveglianza di intervenire in tempi rapidi sul trattamento del detenuto una volta che lo stesso sia inserito in un circuito penitenziario.
c) Si ravvisa, inoltre, la necessità di modificare l’art. 656, comma 9, lett. b) C.p.p. laddove non prevede la sospensione dell’esecuzione della pena per coloro che sono detenuti e nei confronti dei quali sopravviene una condanna definitiva ad una pena inferiore ad anni 3 di reclusione, in modo da non lasciare ad un fatto del tutto casuale (quale potrebbe essere il sopraggiungere della irrevocabilità della sentenza in una data determinata dalla lavorazione del fascicolo dell’ufficio esecuzione, proprio nel periodo in cui un soggetto è sottoposto allo stato detentivo), in modo da evitare irragionevoli disparità di trattamento tra coloro i quali si trovano in stato di libertà e i detenuti in custodia cautelare al sopraggiungere del titolo esecutivo con pena inferiore ad anni 3 di reclusione.
Pertanto, la modifica suggerita è l’aggiunta alla lettera b) dell’art. 656 C.p.p., dopo le parole “la sentenza diviene definitiva”, delle parole “e la pena è superiore ad anni 3 di reclusione”.

Art. 4-bis l. ord. pen.:
l’introduzione di reati ostativi;
innalzamento del tetto di accesso
ai benefici penitenziari.

1. Il vero scardinamento del sistema della funzione rieducativa della pena costituzionalmente previsto va individuato nell’introduzione nel nostro ordinamento dell’art. 4-bis della legge di ordinamento penitenziario. A riprova di ciò basti riflettere sulla circostanza che la citata norma è quella che in assoluto ha subito il maggior numero di censure dalla Corte Costituzionale che però, nonostante i molteplici interventi modificativi, non è riuscita a neutralizzarne la portata “eversiva”.
L’art. 4-bis, nella sua attuale formulazione è, del resto, figlio della cultura emergenziale per eccellenza, quella del periodo stragista (omicidi Falcone e Borsellino), in cui lo Stato si è dovuto confrontare tra il rispetto, costituzionalmente sancito, della finalità rieducativa della pena e quello di prevenzione generale della collettività. A distanza di 15 anni dall’introduzione della norma in oggetto la stessa si è arricchita, ai fini dell’ostatività per l’accesso ai benefici penitenziari, di nuove figure giuridiche senza però dichiarare cessata o quantomeno diminuita l’emergenza per alcune di quelle originariamente inserite. Tutto ciò ha indubbiamente creato degli sbarramenti normativi per le opportunità trattamentali previste dalla normativa sull’ordinamento penitenziario per categorie di soggetti sempre più vaste per le quali si è dovuto abdicare, del tutto o per gran parte della pena, alla funzione rieducativa della stessa, con inevitabili conseguenze sull’aumento della popolazione detenuta. Il passaggio alla creazione di “tipi d’autore” di reato attraverso una presunta pericolosità sociale individuata in base alla tipologia di condanna è quanto di più distante dai principi introdotti condannati per determinati tipi di reato, per i quali non è possibile un loro reinserimento graduale nella società e che quindi vivono la detenzione non come un’opportunità di rieducazione, ma nella passiva attesa di ritornare liberi senza alcuna aspettativa.
Sul punto va registrato il silenzio della magistratura, che al di là delle ordinanze di remissione degli atti alla Corte Costituzionale in alcune econmiabili eccezioni, nelle sue componenti associative non ha ritenuto di prendere posizione a difesa di principi costituzionalmente garantiti.
2. Ci sono sicuramente momenti in cui la collettività deve difendersi da una criminalità attiva e persistente, ma lo deve fare senza sacrificare i principi cardini dell’ordinamento giuridico anche, come nel caso dell’art. 4-bis ord. penit., attraverso l’applicazione retroattiva di norme così penalizzanti anche per fatti commessi antecedentemente.
Non si ritiene, del resto, casuale l’esponenziale aumento della popolazione detenuta negli ultimi 15 anni a fronte di un numero pressoché costante di reati commessi ed accertati. Norme come quella in oggetto sono la causa principale del sovraffollamento degli istituti penitenziari perché da un lato hanno creato un doppio binario di valutazione di presunta pericolosità fondato, come si è detto, esclusivamente sul tipo di reato commesso di cui ne ha risentito tutta la normativa successiva, e dall’altro hanno impedito alla magistratura di sorveglianza l’esercizio del potere discrezionale nella giurisdizione, compromettendo immotivatamente la possibilità di reinserimento sociale per molti detenuti anche alla prima esperienza detentiva (si pensi ai partecipi alle associazioni in materia di stupefacenti o ai sequestri di persona frutto di condotte episodiche generate da comportamenti del tutto contingenti).
3. La conseguenza di tali considerazioni non può che essere quella di una proposta abrogativa dell’art. 4-bis ord. penit. con recupero da parte della magistratura di sorveglianza e degli organi istituzionalmente competenti del potere di valutare i singoli percorsi rieducativi in base alla personalità del condannato, alla sua pericolosità sociale e a tutti gli altri parametri normativamente previsti.

Legge ex-Cirielli

1. Più nota all’opinione pubblica come legge varata per ridurre i termini prescrizionali, la legge 5 dicembre 2005 n. 251 introduce la nuova disciplina della recidiva con le sue propaggini in tema di circostanze del reato, di aumento sanzionatorio nei casi di concorso formale e reato continuato e di limiti ai benefici penitenziari, che contribuiscono in maniera evidente all’incremento del sovrappopolamento carcerario.
2. Di particolare rilievo è da considerare, in tal senso, l’introduzione del divieto della concessione delle circostanze attenuanti sulle aggravanti contemplate dagli artt. 99, comma 4; 111 e 112, comma 1, n. 4 del C.p. nell’ambito del bilanciamento ex art. 69 C.p.
Tale innovazione, infatti, non solo pone qualche interrogativo sull’adeguatezza della pena irrogabile rispetto agli scopi perseguiti dall’art. 27, comma 3, Cost. (si pensi all’impossibilità di irrogare la pena prevista dal V comma dell’art. 73 del D.p.r.309/90 nei casi dei recidivi di cui al 99 co. IV C.p. e pertanto, all’irrogazione della pena minima di anni 4 anche nei casi in cui il quantitativo dello stupefacente oggetto del procedimento penale è di tutta evidenza “inquadrabile” nella fattispecie attenuata del delitto di detenzione ai fini di spaccio di stupefacenti!), ma determina un evidente aumento ingiustificato della popolazione carceraria. Si tratta, quindi, di una impostazione normativa che prescinde dalla oggettiva gravità del reato e dal disvalore penale della condotta, soffermandosi esclusivamente sulla personalità deviante del suo autore.
3. Stessa impostazione è stata applicata nel disciplinare il tempo della prescrizione del reato: con la legge ex-Cirielli, infatti, l’allungamento dei termini di prescrizione dei reati non è più ancorato alla gravità oggettiva del reato (come è avvenuto fin d’ora con l’art. 157 C.p.), ma alla personalità criminale del reo desunta dalla recidiva o dal suo stato di professionalità o abitualità nel reato (cfr. art. 161, co. 2, C.p. come novellato dall’art. 6, co. 5, legge 251/2005). Innovazione normativa che non può affatto ritenersi in linea con i principi costituzionali di personalità dell’addebito penale, da sempre ancorata alla visione “oggettiva” della colpevolezza come disvalore penale della condotta e non certo come manifestazione della personalità criminale del suo autore (cfr. Corte Costituzionale n. 364/1988).
4. Intervento in chiave repressiva anche in fase di esecuzione penale emerge in tutta evidenza laddove la legge 251/2005 ha introdotto forti limitazioni all’applicazione dei vari benefici “extramurari” ai recidivi, che costituiscono la maggior parte degli attuali detenuti: si pensi all’aumento della popolazione carceraria a seguito delle introdotte limitazioni per i recidivi specifici o infraquinquennali reiterati, per quanto riguarda i permessi premio, la detenzione domiciliare o l’affidamento in prova al servizio sociale (artt. 7,8 e 9), posto che essi non possono più usufruire della sospensione dell’esecuzione della pena ex art. 656, co. 5, C.p.p. a seguito dell’inserimento (art. 9 della legge ex-Cirielli) di una nuova lettera c) all’art. 656, co. 9, C.p.p.
5. Altra disposizione allarmante, in termini di imminente sovraffollamento carcerario, è quella posta al co. 6 dell’art. 7 della legge: i comma 1 dellart. 58-quater e 26 luglio 1975 n. 375, è sostituito dal seguente: “L’assegnazione al lavoro all’esterno, i permessi premio, l’affidamento in prova al servizio sociale, la detenzione domiciliare e la semilibertà non possono essere concessi al condannato che sia stato riconosciuto colpevole di una condotta punibile ai sensi dell’art. 385 del Codice penale”. Tale innovazione normativa (di natura processuale e pertanto applicabile a tutti coloro che già prima dell’entrata in vigore della legge siano stati condannati con sentenza passata in giudicato per il delitto di cui all’art. 385 C.p.) non può che avere conseguenze in termini di carcerazione massiccia e irragionevole ai sensi dell’art. 3 Cost., soprattutto nei casi di commissione, da parte dell’“evasore episodico” ex art. 385 C.p. (e pertanto, magari, condannato con pena sospesa), di una successiva condotta costituente reato non particolarmente grave per il quale subisce una condanna a pena detentiva.
Questi solo alcuni degli aspetti devastanti della legge ex-Cirielli in termini di irragionevole, ingiustificato e desocializzante (ex art. 27, co. 3, Cost.) aumento della popolazione carceraria.

Modifiche alla legge Bossi-Fini

1. Da più parti si invocano sostanziali modifiche al d. lgs 25/7/1998 n. 286, Testo Unico delle disposizioni concernenti la disciplina dell’immigrazione e norme sulla condizione dello straniero: la cosiddetta Bossi-Fini.
Tra gli interventi più urgenti vi sono quelli che riguardano le gravose sanzioni penali previste per quei cittadini stranieri che, privi di permesso di soggiorno mai chiesto o non ottenuto, benché raggiunti da provvedimento di espulsione, non ottemperino senza giustificato motivo all’ordine emesso dal questore, ex art. 14, co 5 bis della legge, di lasciare il territorio dello Stato entro il termine di cinque giorni. L’art. 14, c. 5 ter della legge prevede, per chi si renda responsabile di tale delitto, la reclusione da uno a quattro anni e nuova espulsione con accompagnamento alla frontiera. Sanzioni contravvenzionali più lievi (arresto da sei mesi ad un anno) sono previste per chi abbia ottenuto il permesso di soggiorno, ma questo sia scaduto da oltre sessanta giorni. La reclusione è, invece, fino a cinque anni se il soggetto, già espulso ex art. 14 c. 5 ter, viene nuovamente fermato nel territorio dello Stato. Per i delitti di cui sopra si procede, ex art. 14 c. 5 quinques con rito direttissimo ed è previsto l’arresto obbligatorio.
La pena originariamente prevista per il reato di indebito trattenimento, introdotta in forma contravvenzionale dall’art. 13 legge 30/7/2002 n. 189 consisteva nell’arresto da sei mesi ad un anno. E’ stata la legge 271/2004 ad inasprire le pene per specie e quantità e ciò soprattutto per “rimediare” agli effetti della sentenza della Corte Costituzionale 223/2004 che aveva dichiarato l’illegittimità della norma concernente l’arresto obbligatorio per il reato di indebito trattenimento allora previsto in forma contravvenzionale. Il legislatore ritenne, quindi, di introdurre valori sanzionatori maggiormente compatibili con l’applicazione di misure cautelari coercitive.
2. Sono numerosi i motivi di irragionevolezza, evidenziati dalle pronunce dei Tribunali di ogni parte della Repubblica, che impongono non solo di eliminare tale ingiustificato e sproporzionato aggravamento della sanzione, ma anche di abrogarlo introducendo meccanismi di tutela extrapenale. In particolare:
a) la pena è sproporzionata per eccesso rispetto alla gravità effettiva del fatto incriminato, tenuto conto che si tratta di un reato di pericolo non sintomatico per sé di pericolosità sociale;
b) le sanzioni previste sono enormemente più alte rispetto a previsioni normative relative a condotte di inottemperanza di provvedimenti amministrativi emessi dall’autorità amministrativa per ragioni di sicurezza (art. 650 C.p., art 2 legge 27/12/1956 n. 1423 in tema di misure di prevenzione, art. 157 R.d. 773/1931 in tema di contravvenzione al foglio di via obbligatorio, ecc.);
c) la gravità della pena prevista, essendo sproporzionata rispetto al fatto incriminante, non assolve alla funzione rieducativa della pena;
d) la previsione dell’arresto obbligatorio, in virtù della pena edittale massima, contrasta con principi di ragionevolezza e proporzionalità nella irrogazione di misure cautelari limitative della libertà personale.
3. Ma vi è un’altra decisiva osservazione che deve essere con forza affermata. L’abnormità di tale previsione legislativa ha determinato gravissime conseguenze per il sistema penitenziario italiano contribuendo a determinare quel sovraffollamento delle carceri che solo il recente provvedimento di indulto ha consentito di momentaneamente alleviare. Queste le impressionanti cifre fornite dal ministero della Giustizia: dal gennaio 2004 al settembre 2004 gli stranieri incarcerati per reati di cui al Testo Unico sull’immigrazione sono stati 2.469. Nel corrispondente periodo del 2005, e, quindi, dopo l’entrata in vigore del d.l. 14/9/2004 n. 241, convertito in legge 12/11/2004 n. 271 che ha inasprito le sanzioni di cui all’art. 14, c. 5 ter e quater, gli stranieri incarcerati per reati di cui al Testo Unico sull’immigrazione sono stati 9.800. Dal gennaio al settembre 2006 sono stati 11.116.
4. Le norme qui censurate hanno resistito al vaglio di legittimità costituzionale della Corte Costituzionale che con sentenza 22/2007 ha però ritenuto che i rilievi mossi dai giudici di merito alle norme di cui sopra, pur non consentendo alla Corte regolatrice di intervenire onde evitare indebili sconfinamenti, possono “costituire materia di utile riflessione per il legislatore”.
La crescita esponenziale di arresti ha dimostrato che l’inasprimento delle sanzioni non ha in alcun modo frenato il fenomeno dell’immigrazione clandestina, ma ha solo portato a congestionare gli istituti di pena con notevole dispendio di risorse e con immaginabili conseguenze sulla già precaria funzionalità dell’Amministrazione penitenziaria.
La problematica in questione deve, quindi, essere risolta non criminalizzando il clandestino per il sol fatto di essere tale e in assenza di commissione di reati o violazioni che ne evidenzino una reale pericolosità per l’ordine pubblico, ma percorrendo altre strade di natura politica (internazionale e nazionale) e sociale, con l’ausilio di provvedimenti amministrativi di maggiore efficacia (espulsioni con accompagnamenti alla frontiera, ecc.) limitando l’intervento penale solo a danno di coloro che, stranieri o cittadini, pongano in essere condotte che, per motivi di lucro, organizzano e favoriscono illeciti ingressi nel territorio dello Stato.
Per queste ragioni l’Unione delle Camere Penali Italiane avanza proposta di: “Abrogazione dell’art. 14 c. 5-ter, 5-quater, 5-quinques del d.lgs 25 luglio 1998 n. 286”.

NELLA FOTO: Da sinistra: Donatella Caponetti, dirigente Centro Giustizia Minorile del Lazio; Angiolo Marroni, Garante dei Diritti dei Detenuti del Lazio; Massimo Pineschi, Presidente del Consiglio Regionale del Lazio; Antonio Fiorella, professore ordinario
Diritto Penale dell’Università Roma 3
Foto di Federico Adinolfi

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