Il flusso migratorio in Italia non è un fenomeno recente. Già verso la fine del secolo appena chiuso, un flusso di gente in cerca di lavoro si mosse dal sud al nord della nostra penisola. Un esercito di esseri deboli in cerca di una valutazione sociale, lavorativa e culturale. Nacque allora la prima idea di raccogliere questi poveri giovani abbandonati, immigrati, sfruttati nel primo oratorio dove potersi riunire almeno la domenica. E qui nasque la “scuola festiva”, la “scuola serale” senza la necessità di abbandonare il “mestiere”.
Prima che lo Stato creasse norme per tutelare i minori, un piccolo uomo sentì la necessità di tutelare i giovani lavoratori nei confronti dei datori di lavoro: don Bosco, che stese, nero su bianco, le prime regole con i primi contratti di lavoro: “il mastro doveva impegnarsi a dare all’apprendista le necessarie istruzioni e tutte quelle regole per imparare ad esercitare bene il proprio lavoro. Ad occuparlo in lavori proporzionati all’età e alle capacità e alle sue forze fisiche, senza occuparlo a qualsiasi servizio estraneo alla specifica professione”.
Così lo sforzo dei salesiani era finalizzato a prevenire abusi effettuati senza regole.
Don Bosco era un prete, un educatore, non un politico né un sindacalista, che per istituto affrontò la “questione giovanile” per proteggere un esercito di giovani bisognosi di sostegno in un mondo sconosciuto. Mise in primo luogo il giovane, con le sue necessità, le sue attese e la sua persona, proteggendo i valori del corpo e dello spirito, sicuro di migliorare la qualità di tutta la società.
Concepì il lavoro come “scuola di vita”, non una schiavitù ma un dovere indispensabile per i bene materiale e morale.
Oggi invece è cambiato tutto; non si parla più di “mestiere” ma di “ruolo professionale”, di “qualificazione” e “riqualificazione” spesso con risultati incerti. Abbiamo ancora un disagio giovanile, tante regole, tante leggi che come risultato hanno portato in piazza, in Europa, a Parigi, tanti giovani figli di immigrati che ci dimostrano come siano falliti i moderni modelli d’integrazione.
L’immigrazione è una sfida. Le nostre scuole sono sempre più colorate e plurilingue e questo ci obbliga a creare una società plurale e integrata. Ma la nostra scuola è in grado di accogliere tante differenze, affrontare conflitti, aprire nuovi orizzonti, per una vita che porti all’integrazione?
Siamo giunti ad una immigrazione di 3 milioni di unità molto diverse dagli altri flussi migratori europei. Gli immigrati vengono da 190 Paesi, sparsi sul territorio, in piccoli centri. Nelle scuole il numero di alunni immigrati supera, a volte, quello degli italiani.
Siamo già alla seconda generazione di immigrati, i bambini nati in Italia raggiungeranno, tra poco, le scuole superiori, aprendo un’era molto delicata per gli adolescenti che dovranno affrontare le sfide dell’età giovanile. La nuova lingue, i nuovi codici di comportamento e l’avvicinamento ad una nuova cultura. Il passaggio dall’infanzia all’adolescenza procura ansia depressiva e stato confusionale, specialmente per quei giovani, che raggiungono i genitori già in Italia, costretti a lasciare le loro origini verso incertezze e transizioni.
Le difficoltà spingono all’abbandono scolastico specialmente quando questi giovani vengono inseriti in classi con alunni italiani inferiori alla propria età. C’è il pericolo che questo divario crei delle barriere sociali e situazioni di emarginazione. Gli interventi in queste emergenze hanno dimostrato una forte scarsità di risorse, lasciando l’iniziativa agli insegnanti che non hanno altro mezzo che la buona volontà, anche loro soli e disorientati. Il piano legislativo è pieno di buoni propositi ma non ha linee-guida definite.
La strada italiana all’integrazione non ha punti di riferimento ed è una sfida che richiede pratica, risorse economiche e normative chiare, in modo da costruire una società in cui gli immigrati non siano ospiti ma diventino nuovi cittadini con diritti e doveri.
Il modello italiano d’integrazione, secondo gli interventi ministeriali, deve valorizzare il dialogo reciproco, il riconoscimento delle culture e degli individui. Questo ancora sulla carta. Manca l’attuazione nella pratica. Intanto l’immigrato attende.
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