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Ottobre/2007 - Interviste
Carceri - Intervista all'on. Silvio Crapolicchio
Troppi gli immigrati detenuti
di Intervista a cura di Paolo Pozzesi

Da alcuni anni, nel problema delle carceri italiane si inserisce, in maniera rilevante, la presenza tra i detenuti di numerosi immigrati. Questo non solo aggrava il sovraffollamento, ma crea un aspetto inedito di convivenza all’interno degli istituti di pena. Verosimilmente, una persona venuta da un Paese lontano non reagirà al carcere come un italiano. In che modo si deve affrontare questa situazione? Per assurdo, bisognerà forse creare delle prigioni per immigrati, anche se questi non sono tutti uguali tra loro?
Il problema dell’aumento della presenza nelle carceri italiane di detenuti immigrati è un fenomeno che certamente negli ultimi anni ha reso ancora più complessa la vivibilità di chi si trova negli istituti penitenziari.
Purtroppo, sino ad oggi, le leggi emanate per limitare soprattutto la presenza dei clandestini, hanno peggiorato una situazione già di per sé grave. D’altra parte, non si è riusciti a risolvere il problema fuori dalle carceri figuriamoci in un piccolo mondo dove tutto è portato alla esasperazione. Ovviamente, questa considerazione non può esimerci dal tentare di trovare soluzioni che seriamente affrontino la questione in modo tale che l’unica distinzione che debba sussistere sia quella relativa all’entità della condanna.
Sono profondamente contrario all’idea di creare un carcere solo per immigrati perché in tal modo si darebbe vita ad una ulteriore discriminazione che comprometterebbe ancora di più, a mio giudizio, il recupero sociale dell’immigrato ed il suo eventuale reinserimento.
Penso, che un primo passo verso una pacifica convivenza potrebbe essere quello di inserire nelle carceri italiane la figura di mediatori interculturali da affiancare agli educatori e agli assistenti sociali, in modo da avviare un confronto costruttivo, in un contesto che non li faccia sentire troppo legati alle proprie abitudini di vita ed anzi li ponga in una condizione di curiosità e di voglia di ragionare sui rispettivi comportamenti.
Spesso le condotte di tanti extracomunitari nascono dalla loro esasperazione e trovo sbagliato il silenzio che i media fanno su tutto ciò, ma è certamente meglio il silenzio piuttosto che un parlarne che sia soltanto criminalizzarli ancora di più, senza mai arrivare alla vera fonte del problema.

La legge Bossi-Fini viene spesso criticata, e in effetti non ha dato risultati apprezzabili. Ma la necessità di frenare il flusso continuo di clandestini è innegabile, e facilitare eccessivamente la regolarizzazione degli irregolari può apparire più un palliativo che una soluzione. Si può pensare a una legge che sia insieme equa ed efficiente?
Si può tranquillamente sostenere che la Bossi-Fini si è rivelata una legge fallimentare sul terreno della regolarizzazione dei flussi migratori che investono il nostro Paese. Quella riforma non ha funzionato a causa della complessità dei meccanismi di regolarizzazione che hanno ritardato anche una piena integrazione per chi arriva in Italia.
Non possiamo dimenticare comunque, quando parliamo di immigrati, che questi rappresentano una necessità per la nostra economia produttiva, considerato che l’Italia ha bisogno di circa 250mila persone all’anno per mantenere il livello di produzione e la qualità dei servizi e gli immigrati, sotto questo punto di vista, sono una risorsa fondamentale.
Ritengo, dunque, che si debba lavorare per una legge equa ed efficiente e i punti cardine sui quali il governo sta lavorando per riformare l’attuale legislazione, che vanno da una programmazione realistica dei flussi, alla chiamata diretta, all’autosponsorizzazione, vanno proprio in questo senso.
I Comunisti Italiani daranno certamente il loro contributo per una normativa che coniughi indissolubilmente i principi della tolleranza e del rispetto di tutti i diritti sociali, che non possono più essere calpestati come è avvenuto con la Bossi-Fini.

D’altra parte, tra gli immigrati, clandestini e no, vi è chi è portato a violare la legge a causa delle condizioni difficili in cui si trova, e chi (e non sono sempre extracomunitari, dopo l’allargamento dell’Ue) viene con una disposizione a delinquere. E’ ragionevole pensare a una (molto difficile) selezione preventiva? Oppure, sarebbe opportuno rendere più rigide le regole per l’ingresso, aumentando nello stesso tempo i controlli e la sorveglianza alle frontiere?
A dispetto di questa concezione dell’immigrato predisposto a delinquere, preferirei ricordare che, negli ultimi dieci anni, si sono registrati flussi di immigrazione di circa centomila lavoratori all’anno, costretti a percorrere vie illegali, costose e rischiose, ma capaci, una volta entrati in Italia, di inserirsi efficacemente in un mercato affamato di manodopera flessibile. Ovviamente le loro condizioni di vita iniziali sono particolarmente difficili, tanto che la malavita organizzata predispone veri e propri piani per arruolare chi non riesce ad integrarsi al meglio.
La nuova legge sull'immigrazione consentirà, contrariamente alla Bossi-Fini, l'ammissione di immigrati per ricerca di lavoro, e perchè ciò avvenga nella massima sicurezza, sarà necessario predisporre regole rigide, forme di reale controllo e pene severe che contrastino i possibili abusi. Non sono assolutamente pensabili selezioni preventive che rischiano solamente di peggiorare la spirale discriminatoria.
In tal senso, ho ritenuto giusta la scelta del governo, nel luglio 2006, di eliminare le restrizioni alla libera circolazione dei lavoratori neocomunitari provenienti da 8 dei 10 Paesi entrati nell’Ue nel 2004, restrizioni che il governo Berlusconi aveva prolungato fino al 2008.

Un altro aspetto molto grave del mondo carcerario è la droga. Sia per la presenza tra i detenuti di tossicodipendenti e piccoli spacciatori, sia per la diffusione di droga all’interno degli istituti di pena. Le regole esistono, ma spesso non vengono rispettate. Siamo di fronte a inevitabili disfunzioni o a tacite connivenze? In entrabi i casi, chi e come dovrebbe intervenire?
Purtroppo, le carceri italiane sono affollate da tossicodipendenti - circa il 25% del totale - e di extracomunitari - quasi il 30% su scala nazionale, con punte del 60-70% nelle grandi città.
Si tratta di individui che hanno commesso dei reati in base alle leggi vigenti nel nostro Paese e che, essendo in attesa di giudizio o essendo stati riconosciuti colpevoli da una sentenza, devono legittimamente essere rinchiusi in carcere fino alla fine della condanna.
Tenendo conto dell’altissima percentuale di questi particolari detenuti, però, è difficile non porsi la domanda se il carcere sia realmente la risposta giusta per quei soggetti che hanno sicuramente violato la legge ma che sono anche al centro di gravissimi problemi sociali.
Credo che si debba tentare di rieducare dei soggetti che hanno alle loro spalle un’intera storia di fallimenti. Si tratta di fallimenti della famiglia, della scuola, della società, a volte della Chiesa, delle misure di prevenzione e di assistenza: sono persone che hanno fallito tante di quelle volte da finire in carcere. E a questo punto si chiede all'Amministrazione Penitenziaria di non fallire più, di riuscire a recuperarli.
Se le carceri sono piene di 14.000 tossicodipendenti, infatti, ciò vuol dire che le risposte fin qui praticate non hanno prodotto i migliori risultati. Certamente delle disfunzioni ci sono, ma eviterei di parlare di connivenze. Sarà allora necessario investire e promuovere maggiormente nuove forme di collaborazione tra gli istituti penitenziari, le Comunità ed i Sert, al fine di coordinare al meglio l’intera azione di recupero delle persone che hanno la dipendenza da droghe vecchie o nuove.

A proposito di disfunzioni, o di connivenze, non si dovrebbe parlare dei rapporti che i boss mafiosi detenuti continuano ad avere con l’esterno, conservando così il controllo delle strategie e dei traffici della criminalità organizzata?
Il 41-bis aveva lo scopo dichiarato di impedire che i boss mafiosi detenuti continuassero a comandare le loro cosche all’esterno del carcere. Ossia, controllare ed impedire la comunicazione tra il dentro ed il fuori attuata mediante il classico vettore dei colloqui coi familiari. Aveva inoltre il compito di controllare ed impedire che la pressione mafiosa all’interno del carcere potesse accedere all’uso strumentale dei colloqui, non solo a quelli dei detenuti mafiosi, ma anche a quelli di detenuti meno sospettabili, di secondo piano o estranei al mondo mafioso.
Questo era ed è purtroppo rimasto l’intento dichiarato. Se questo fosse vero, noi oggi avremmo solo qualche dozzina di boss mafiosi isolati al “carcere duro”; invece abbiamo parecchie centinaia di detenuti sottoposti a questo regime. Chi, soltanto oggi, si meraviglia dei colloqui facili da parte dei detenuti sottoposti al regime del 41-bis, con molta probabilità ha sempre sottovalutato le capacità attraverso le quali i boss mafiosi riescono non solo a mantenere i colloqui con l’esterno, ma addirittura a trasmettere ordini.
Va a tal proposito ricordato che la legge, in merito alla determinazione dei colloqui con familiari e conviventi, interviene solo per garantire locali attrezzati in modo da impedire il passaggio di oggetti, ma non può, in alcun modo, vietare nè il saluto con il congiunto, né tanto meno segnali o movimenti che potrebbero essere significativi e recepiti solo da coloro che appartengono alle singole cosche mafiose.
Non credo si possa addebitare responsabilità per quanto accade nella prassi all’Amministrazione giudiziaria, nelle sue varie articolazioni, ma credo che andrebbe rivista la normativa vigente, limitando natura e modalità dei colloqui.
Come si può facilmente evincere, allo stato attuale, il 41-bis fallisce inesorabilmente l’obiettivo dichiarato di interrompere la comunicazione tra dentro e fuori dal carcere.
Paradossalmente, si può dire che, sino ad oggi, il 41-bis ha riscosso il risultato opposto a quello dichiarato, non incidendo sensibilmente sul fenomeno mafioso nelle sue varie sfaccettature.

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