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Maggio-Giugno/2006 - Contributi
Seminario sulla sicurezza
di Roberto Vitanza

Questo mio breve, anzi direi telegrafico, intervento, per permettere ai numerosi ospiti di svolgere le loro, sicuramente interessanti relazioni, vuole limitare e concentrare l’attenzione ai soli aspetti tecnici del Comparto della Sicurezza, cercando di evidenziare le palesi e profonde contraddizioni, le incapacità funzionali, i limiti concettuali che superiori ed interessate logiche di appartenenza corporativa hanno costretto il sistema, non già quale reale strumento di contrasto alla criminalità tutta, ma vuoto e costosissimo apparato autoreferenziale le cui diversificate strutture si sostengono vicendevolmente come in un grande gioco di prestigio.
Voglio partire dai dati ufficiali pubblicati dal ministero dell’Interno che, nella copiosa relazione sullo stato della sicurezza per il 2005, fornisce un’interpretazione enfatica e forviante al tempo stesso degli stessi, perché concentrata sul mero aspetto numerico l’intera dinamica della sicurezza e delle conseguenti politiche, la cui validità è così asseverata dai risultati numerici così come soggettivamente ricostruiti. La relazione, a conforto della tesi prospettata, segnala che nel quadriennio luglio 2001-giugno 2005 è stata registrata una diminuzione di 13.138 delitti passando le denuncie da 9.301.499 a 9.314.637, da ciò argomentando una sostanziale diminuzione della criminalità.
Non è questa la sede per un’analitica disamina dei dati prospettati è necessario però svolgere due considerazioni. La prima è che la lettura dei dati disaggregati forniti dall’Istat indica, nel periodo 2001/2004 un trend in crescita dei delitti denunciati passando progressivamente da 2.163.826 a 2.456.887 contraddicendo, nei fatti, l’ottimismo dimostrato dall’Amministrazione dell’Interno. La seconda è che non emerge in nessun dato ufficiale il numero, sempre crescente, di fatti reato non denunciati per acquisita consapevolezza, da parte dei cittadini, della inutilità della stessa denuncia di fatti reato, che si riduce, generalmente, ai reati con oggetti assicurati, ovvero contenenti dati sensibili o, infine, ai fatti gravi.
Se poi si insiste nella disamina dei numeri, così come pubblicati dall’Istat, emerge un uleriore dato inquietante.
Nel 2004 le persone denunciate all’Autorità giudiziaria sono state 652.003, mentre i reati commessi da ignoti sono stati 1.884.209, ossia il 74,9% dei reati non trova un colpevole, o meglio, un indagato, perché poi i condannati effettivi sono stati circa 220.000, riducendo così a circa il 92% i reati denunciati di cui si sconosce l’autore, malgrado le persone identificate ammontino a 35 milioni e le vetture controllate a 23 milioni, oltre la metà dell’intero parco auto nazionale.
A fronte di tale negativa ed obiettiva analisi numerica vi è un esercito di oltre 400mila operatori, distinti nelle cinque Forze di polizia, a loro volta suddivise in infiniti ed autonomi Reparti, senza contare le Forze di polizia municipale che la legge di riordino ha loro attribuito analoghe competenze delle Forze di polizia a vocazione generalista.
Tale aspetto, deliberatamente omesso, costituisce in realtà un consistente pregiudizio nel contesto di un rapporto tra costi e benefici e che dovrebbe prioritariamente comportare un’innovativa riforma dell’intero assetto organizzativo delle Forze di polizia, diverso ed antitetico da quello attuale conforme a modelli societari ottocenteschi, ma assolutamente inadeguato alle attuali esigenze sociali.
L’esecutivo, nel citato rapporto annuale sulla criminalità, non ha affrontato minimamente il problema del coordinamento e dei rapporti intersoggettivi tra le diverse Forze di polizia, limitando e delimitando il fenomeno alle sole ed inconsistenti affermazioni di principio, come tali, prive di reale contenuto. Così si esaltano e si motrano, quali esempi di fattiva collaborazione tra le diverse Polizie, entità strutturali come la “cittadella” interforze dell’Anagnina o il Comitato analisi strategica antiterrorismo, ovvero considerare importante e significativa la cosiddetta “sicurezza integrata” con gli Enti locali concretizzatesi in pratica nella esclusiva commissione di progetti di studio ovvero in convenzioni per l’utilizzo di beni confiscati ad organizzazioni mafiose.
Maggior rilievo ed interesse ha invece ottenuto la più volte esaltata “Polizia di prossimità” che si traduce nella definitiva attuazione del poliziotto o carabiniere di quartiere, nuovo pilastro, secondo l’esecutivo della sicurezza partecipata, in grado di ridurre in modo sensibile l’incremento dei fatti reato, come pubblicizzato nella festa del poliziotto di quartiere, recentemente tenutasi a Roma, ove si è, tra l’altro, partecipato pubblicamente il compleanno del relativo organico in 3.700 unità.
Non è certo questa la sede per una incisiva critica all’istituto, voluto ed ideato, è bene ricordarlo, dall’esecutivo di centro-sinistra, è sufficiente, in questa sede, solo segnalare come in realtà l’organico indicato non è frutto di alcun incremento, ma di esclusive riduzioni di altri Reparti. Si è, in definitiva, trattato di un mero ed esclusivo travaso di personale e di risorse già adibite ad attività operative.
In secondo luogo i compiti e le funzioni del poliziotto o carabiniere di quartiere si limitano ad una mera osservazione del territorio con significativi contatti con i cittadini “per bene” del quartiere, mentre l’azione di contrasto alla criminalità esige, tranne che nelle fiction televisive, una penetrante e profonda conoscenza del parallelo mondo del crimine, conoscenza non già di tipo intellettuale e scientifico, bensì riferita alle persone, ai luoghi, alle attività di quanti operano contro la legge.
La carenza di reali cognizioni professionali ha fatto ritenere all’attuale classe politica che la percezione di sicurezza da parte dei cittadini sia soddisfatta dalla materiale presenza del poliziotto di quartiere. In realtà tale miraggio, tale artificiale costruzione, è mortificata dalla quotidiana realtà e dalla mancata soddisfazione del cittadino offeso dal reato che sperimenta direttamente la grave inefficienza ed arretratezza dell’apparato.
In questi anni si è voluto, da parte di tutti gli esecutivi succedutosi, un forte incremento e sviluppo di organi centrali di investigazioni nella convinzione, si deve ritenere, che le indagini possono essere meglio e più efficaciemente realizzate in realtà lontane idealmente dal contesto territoriale in cui i fatti accadono.
Una siffatta organizzazione si pone in contrasto con l’esperienza e la logica che vorrebbe invece ampliare e rafforzare gli Uffici operativi territoriali oggi ridotti, proprio per potenziare tali organismi, a mere “cattedrali nel deserto” in grado solo di acquisire notizie di reato senza avere la possibilità non solo di svolgere alcuna seria e completa indagine, ma neppure di conoscere l’ambiente territoriale e sociale in cui operano.
A fronte di una tale avvilente realtà, a limite del collasso, non vi è alcuna concreta proposta di revisione organica del sistema, non vi è alcuna volontà e capacità di affrontare e risolvere il problema da parte delle forze politiche timorose di offendere le alte gerarchie militari e ministeriali, ognuna gelosa delle singolari prerogative. Basti pensare che non si è riusciti, per la resistenza dei rispettivi apparati, ad unificare le 77 Sale operative presenti sul territorio nazionale e si è dovuto creare un costoso ed inutilizzato sistema di interconnessione che, nei fatti, è privo di qualsivoglia pratica utilità.
Né il futuro appare più roseo alla luce delle proposte avanzate dall’Unione nel tavolo tecnico che doveva predisporre un programma elettorale di reale rinnovamento e dove, invece, sono state difese e prospettate da tali forze politiche, le medesime soluzioni cnon solo già oggetto di profonda e meditata critica, ma che sostanzialmente ricalcano, ed in alcuni casi superano, sinanche il programma che le destre hanno concepito sulla sicurezza. Penso alla proposta avanzata, in quel tavolo, per individuare quali reati potrebbero impunemente commettere gli appartenenti ai servizi di sicurezza.
Allora, per concludere, è necessario che le forze progressiste avviino un serio e realista programma per la sicurezza pubblica che operi reali trasformazioni per fornire ai cittadini un modello di sicurezza razionale e non soltanto un apparato pubblicitario che si infrange alla prima richiesta di ausilio con interventi al di sotto di ogni sopportabile decenza. E’ un lavoro impegnativo che richiede però, in primo luogo chiarezza ed indipendenza dagli apparati per realizzare riforme che incidono sensibilmente e duraturamente nel contesto sociale eliminando e relegando ai margini sociali ogni esigenza corporativa.

(Intervento al Seminario sul tema “Democrazia è Sicurezza”)

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