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Marzo - Aprile/2011 - Interviste
L'Italia a 150 anni
Uscire dalla crisi? Cultura e turismo
di a cura di Barbara Notaro Dietrich

Umberto Croppi non ha dubbi: questa è la vera
risorsa del Paese. Ma i primi a non capirlo sono proprio
i politici verso i quali aumenta
la disaffezione dei cittadini. E coloro che
non votano sono i più coscienti. Non si sentono rappresentati
ma di contro si sviluppa sempre
più un senso civico che va coltivato


Che cosa significa oggi festeggiare i 150 anni dell’Unità d’Italia?
Il nostro è un Paese che rispetto alla formazione del proprio assetto unitario ha avuto un andamento sostanzialmente diverso da tutti gli altri Paesi europei, perché preesiste un’idea di Italia di almeno sei secoli rispetto all’Italia politica – della lingua, della letteratura, delle arti e comunque una forma di riconoscimento che fa sì che un territorio sia definito in maniera omogenea – ma l’unificazione politica è stata invece molto recente e per certi aspetti controversa. Il Risorgimento è stato usato in alcuni periodi della nostra storia in maniera retorica ma il suo significato non è entrato fino in fondo nella coscienza e nella conoscenza degli italiani. Anche la scuola non ha fatto del tutto il suo dovere. Bisogna quindi depurare le celebrazioni dagli aspetti puramente rievocativi e retorici, dandogli il compito di focalizzare l’importanza degli eventi che portarono all’Unità e soprattutto aiutare a completare il processo di nazionalizzazione del nostro Paese. In questo l’impulso che sta dando il Presidente della Repubblica è molto importante ed è uno stimolo alle istituzioni.

Non crede che, se una volta il Nord si sentiva lontano dal Sud e viceversa, oggi un po’ tutti vedono Roma non come la Capitale d’Italia ma come una città in cui si manifesta lo scollamento tra la politica e il vivere quotidiano?
Questo è vero per alcuni aspetti simbolici che sono stati enfatizzati dalla Lega e dai movimenti similari, che utilizzano tutto ciò come elemento polemico. I movimenti meridionalisti non hanno mai avuto una forte spinta autonomista, soprattutto non hanno mai usato Roma come simbolo di una polemica. “Roma ladrona” è un’invenzione bossiana. E’ in realtà l’assenza della politica il quid, cioè l’incapacità di occuparsi seriamente dei problemi del Paese, che ha caratterizzato questo periodo di transizione, in cui ancora siamo immersi. Dagli anni ‘90 ad oggi si è verificato, con il crollo dei partiti tradizionali e l’incapacità di creare una nuova classe politica, un vuoto di cultura politica. I fenomeni nuovi come furono la Rete di Orlando, Alleanza Democratica, il movimento di Segni che portarono a una parziale riforma del sistema elettorale – purtroppo mai compiuta – si scontrarono con un’autodifesa della vecchia classe politica su cui c’è stato uno stranissimo innesto perché i volti nuovi introdotti dall’avvento di Forza Italia, poi in realtà si sono ben impiantati in quelle modalità che sembravano esaurirsi.

Ed oggi?
Oggi siamo nella fase estrema di questa crisi: l’astensionismo, per esempio, rappresenta non una forma di disinteresse verso la politica, ma paradossalmente quelli che non votano sono i più coscienti, sono coloro che non si sentono rappresentati da nessuno. Ora, o si viene fuori da questa situazione di stallo, oppure gli aspetti più epidermici, gli slogan, gli interessi meno nobili, prenderanno il sopravvento. In tutto questo, tanto per chiudere il cerchio, la polemica su Roma ladrona, la voglia di separatismo sono delle forme sostitutive della politica.

Subito dopo la creazione del parlamento nazionale già allora, nella seconda metà dell’800 si posero delle istanze federaliste. Lei pensa che il federalismo possa rafforzare il nostro Stato?
Il federalismo è la decisione di realtà politiche preesistenti di unirsi, come i lander della Germania, come gli stati americani. Un processo al contrario non si è mai visto.

Le Regioni però sono state una forma di federalismo…
Le Regioni, peraltro contestate già da alcuni padri fondatori – Nenni per esempio diceva che si riduceva l’Italia in pillole – furono una forma di divisione burocratica che spesso non teneva conto nemmeno di bacini omogenei.
Per tornare al federalismo, ci sono stati movimenti e studi su di esso che avevano una certa consistenza, per esempio quello di Altiero Spinelli. Lo stesso Miglio, che era l’ideologo della Lega, anche se presto scaricato da Bossi, aveva disegnato tre macro Regioni che potevano avere un senso, perché erano caratterizzate intanto da dimensioni sufficienti e poi da omogeneità geografica, orografica, di funzioni di mezzi di collegamento, di produzione. Oggi le Regioni così come le conosciamo sono, ripeto, una finzione burocratica.

Però la riforma dell’articolo 5 della Costituzione è già federalismo.
Infatti i guai sono già stati fatti consentendo alle Regioni di potersi dotare di propri statuti e di proprie regole. Questo ha portato una disomogeneità di attività, di sistemi elettorali addirittura, creando solo danni e confusione.
Si continua a discutere del federalismo fiscale, ma quello che viene contrabbandato come tale è la capacità di autonomia impositiva dei Comuni che è il sistema che c’era fino agli inizi degli anni ’70 in Italia. O meglio, allora era un sistema perfetto, oggi sarebbe la sua riproposizione, ma in maniera imperfetta, perché genererebbe solo sovrapposizione di imposte centralizzate e locali. Si va avanti su questa strada solo perché la Lega deve dimostrare al suo elettorato di aver ottenuto risultati.

Lei ritiene che l’Italia possa ripartire da quello che tutti vanno sostenendo e cioè le infrastrutture e le costruzioni in generale?
Purtroppo l’edilizia per i Comuni italiani è diventata sempre più l’unica forma di economia locale, senza contare altri aspetti legati all’occupazione, visto che nella maggior parte dei casi si impiegano lavoratori immigrati per cui non si generano nemmeno posti di lavoro per i cittadini italiani, ed è un tipo di investimento improduttivo perché crea soltanto plus valenze per chi costruisce ma non crea un ciclo produttivo stabile, sviluppandosi in mancanza di vere politiche di investimento. In Italia, senza ripercorrere tutta la transizione dall’agricoltura a favore dell’industria, e la crisi di quest’ultima, non è mai stata praticata una politica di utilizzazione del patrimonio che abbiamo che è quello naturale, paesaggistico e culturale. Per cui si tampona con l’edilizia - anche a Roma ora è stato annunciato il grande piano di investimenti privati sull’edilizia. Ma se agli stessi costruttori chi governa le città fosse in grado di proporre investimenti nel settore del turismo o del territorio, questi sarebbero i primi ad accettare questa logica. Nel nostro Paese il fabbisogno abitativo potrebbe essere in buona parte risolto con quanto già c’è di costruito.
Inoltre c’è una grande quantità di provvedimenti rispetto al territorio. Alcuni sensati, quali la legge Galli per l’idrogeologico, ma che alla fine son serviti unicamente a creare dei nuovi carrozzoni senza incidere minimamente sul sistema per cui erano stati creati. La Regione Lazio si dotò più di 20 anni fa di un piano paesistico che sembrava la mappa di Borges: andava addirittura a censire le presenze arboree di ogni singola zona. Un lavoro complesso e costoso mai utilizzato come strumento di pianificazione, quando non addirittura vi sono casi contrari, in cui non solo si è lasciato costruire con danni al sistema idrogeologico, ma anche con danni economici: la cementificazione dei torrenti in Sicilia è stata una voragine di spesa che ha creato le condizioni per il depauperamento delle risorse idriche e, in stati di eccezione, per l’eccessivo convoglio delle acque, fenomeni di smottamenti. Del resto sulle coste del nostro Paese il fenomeno è clamoroso.

Perché il patrimonio artistico del nostro Paese, che nessuno mai ha censito, ma che tutti concordano nel dire sia enorme, non riesce a diventare una risorsa per il Paese?
Sulla quantità di patrimonio un dato è certo: la concentrazione di beni è enorme. Non c’è un chilometro quadrato del territorio italiano che in qualche modo non sia segnato dal patrimonio. Tutto questo sembra non valere perché manca una cultura della classe dirigente di comprensione del valore sociale, ambientale. Vivere in un ambiente così dovrebbe essere un supporto per la qualità della vita straordinario. E uso il condizionale perché le condizioni in cui sviluppano i servizi, la mobilità, l’inquinamento, cancellano questo effetto positivo. Ma c’è anche un valore economico straordinario. La nostra classe politica si è formata in ambiti completamente estranei a questo. Può sembrare riduttivo ma i nostri politici non vanno a teatro, non vanno al cinema, non entrano in un museo. Io potrei, e non lo faccio per amor di patria, fare una casistica specifica di alte autorità chiamate a gestire il nostro patrimonio archeologico, che vivono a Roma, e che scoprono che esistono i Mercati di Traiano solo quando sono costretti a visitarli per dovere d’ufficio.

Che cosa avrebbe dovuto significare nella pratica il cambiamento di denominazione del Comune di Roma in Roma Capitale?
Il cambiamento di nome – a parte che non entrerà mai nell’uso quotidiano –, cioè il decreto piuttosto confuso che ha introdotto questa innovazione, recita che viene “istituito un ente locale speciale che coincide con il territorio del Comune di Roma”. Dovrebbe essere la premessa per inserire nelle leggi sul federalismo, usato in quella maniera impropria che descrivevo prima, la capacità di autonomia vera e alcuni trasferimenti di competenze. Tutto questo si scontra intanto con la Regione, perché il nuovo ente dovrebbe assumere alcune delle deleghe che sono ora della Regione e questa ovviamente fa resistenza. Poi c’è il quadro dell’autonomia fiscale che è ancora tutto da definire, per cui è un percorso incerto. Mentre servirebbero provvedimenti più diretti, come fu 20 anni fa la legge speciale per Roma Capitale che dava risorse eccezionali di cui ancora oggi si beneficia, perché molti degli investimenti delle infrastrutture per Roma derivano ancora da quei fondi speciali.

Che ne pensa dei tagli annunciati a livello comunale per la cultura?
Intanto si aggiungono ai tagli ormai certi da parte dello Stato. Il Comune di Roma si trova in uno stato prossimo alla bancarotta e salvo provvedimenti dello Stato dell’ultimo momento, il bilancio 2011 del Comune dovrà essere fortemente ridimensionato. Proprio per i motivi che si ricordavano prima, il comparto della cultura è quello che viene più penalizzato, perché la scala delle priorità prevede un altro ordine: si ritiene, ad esempio, che la spesa sociale sia intangibile e non si capisce perché una biblioteca non sia considerata una spesa sociale come un asilo nido. Tutto ciò provocherà danni fortissimi al tessuto economico della città, all’erario nazionale e comunale. Da assessore io mi stavo attrezzando in varie forme.
Intanto stilando un elenco di priorità, perché se si deve tagliare non lo si può fare in maniera indiscriminata; poi con strumenti di governance che consentissero in maniera seria la partecipazione di privati. Chi governa pensa che gli interventi dei privati debbano essere sostitutivi rispetto a quelli pubblici, ma non funziona così perché sennò si ottengono solo effetti marginali. Bisogna far coincidere gli interessi. Avevo fatto deliberare la creazione della Fondazione Macro per esempio, per la quale avevo raccolto una serie di manifestazioni di interessi. Per fare questo bisogna avere consapevolezza di come si articola il rapporto pubblico privato e la volontà di arrivare a questo. Non mi pare che queste caratteristiche siano diffuse…

Perché la cultura non è un valore anche sociale per gli italiani?
I cittadini sono molto più avanti dei loro governanti, basta vedere come reagiscono ogni volta che c’è uno stimolo. A Roma in questi anni ci sono code davanti ai musei quasi sempre; quando ci sono stati eventi particolari c’è stata pure un’affluenza massiccia e c’è un dato significativo: davanti a una crisi che incide pesantemente sui bilanci familiari, sia pure di poco ma gli investimenti in cultura delle famiglie italiane sono aumentati.

Quindi gli italiani non sono anestetizzati come dicono tutti?
Nella mia esperienza da assessore ho verificato che c’è una capacità di reazione e partecipazione molto superiore a quanto ci si immagina. Io ho utilizzato la posizione che avevo per creare una rete tra operatori e fruitori della cultura e anche aprire delle vertenze. Quando il 12 novembre scorso abbiamo fatto una vertenza nazionale di protesta per i tagli alla cultura, tutti hanno aderito. E questo ha costretto chi governa a scontrarsi con questa esigenza. Questo senso civico che si è sviluppato, sento la responsabilità di non disperderlo, costituendo una sorta di osservatorio sulla cultura.

Lei non crede che occorrerebbe fare un passo in avanti e creare collaborazione tra enti diversi?
Il problema di fondo è che sono state fatte delle leggi quadro in Italia, a partire dalla 1089 del ’39 che ha introdotto il criterio della tutela, la Ronchey, il Codice dei Beni culturali di Urbani, che però non hanno mai tenuto conto di una visione globale per cui gli enti locali hanno finito per svolgere un’azione di surroga di funzioni che in altri Paesi sono statali, oppure sono andati in sovrapposizione. Ne segue dispersione di risorse ed altri problemi.

La strada della Fondazione come la valuta?
La Fondazione è uno strumento giuridico che grazie a un’invenzione di un notaio milanese, Bellezza, ha consentito questa forma di partecipazione pubblico-privata. Che sia una Fondazione o una Spa l’importante è che sia uno strumento di compartecipazione pubblico-privato, che poi è sicuramente la strada giusta da percorrere oggi. Mentre nei paesi anglosassoni c’è, anche a fianco a quello pubblico, che è consistente, un intervento dei privati consolidato nel tempo; noi non possiamo produrre lo stesso risultato a colpi di alienazioni, però si può arrivare a una vera forma di partnership, una forma di governance che dia soddisfazione ai privati.

Perché l’Italia non riesce a fare una legge sulla defiscalizzazione per l’arte?
Non è vero che non ci sia la defiscalizzazione. Il fatto è che ancora in pochi lo sanno. Gli investimenti aziendali sono totalmente deducibili. Quello che invece si potrebbe fare è migliorare la deducibilità per i privati che ora è del 19 per cento. Poi bisognerebbe agire sull’altro versante, rendendo stabili e generalizzati gli incentivi fiscali per tutte le forme di produzione culturale.


FOTO: Umberto Croppi, Assessore alla Cultura del Comune di Roma

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