La deregolamentazione del mercato del lavoro e la crescente esternalizzazione dei processi produttivi hanno fatto emergere nel nostro Paese nuove forme di caporalato e di sfruttamento del lavoro. Repressione e aumento dei controlli ispettivi non bastano. Occorrono interventi coordinati e strategie multilivello, atte ad incidere sui molteplici fattori che agevolano le condotte di intermediazione illecita di manodopera e lo sfruttamento
Il concetto di caporalato viene comunemente associato a forme di sfruttamento di lavoratori, in specie cittadini extracomunitari, poste in essere nelle regioni del sud Italia da parte di “datori di lavoro” senza scrupoli o da organizzazioni criminali operanti nel settore agricolo (c.d. agromafie). Il caporale è, in questo senso, lo sfruttatore che recluta braccianti stranieri per costringerli a lavorare nelle campagne.
Come emerge dal VII Rapporto agromafie e caporalato del 2024, curato dall’Osservatorio Placido Rizzotto della FLAI-CGIL, il caporalato è ancora fortemente presente nel settore agricolo e si è esteso alle regioni del nord (cfr. il report di Terre, Gli ingredienti del caporalato. Il caso del nord Italia, 2025). Recenti vicende di cronaca dimostrano, tuttavia, come esso si sia ormai radicato in molteplici settori del tessuto economico-produttivo del nostro Paese.
Le principali vittime del caporalato sono i lavoratori stranieri irregolari. Si tratta di persone facilmente ricattabili e disposte ad accettare condizioni di lavoro particolarmente sfavorevoli, pur di non far ritorno nei loro Paesi di origine. Ma ad essere sfruttati sono anche cittadini italiani ed europei, spesso costretti ad accettare contratti di lavoro apparentemente regolari (caporalato “grigio”), che celano, però, rilevanti violazioni dei loro diritti, dando vita ad una c.d. “schiavitù contrattualizzata”.
Globalizzazione economica
Il mercato globalizzato, connotato da un forte divario economico e sociale tra Stati, contribuisce ad alimentare il caporalato…
di Ivan Salvadori – Università di Verona
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