La richiesta del Consiglio d’Europa è un’occasione da non perdere
di Laura Squillace, assegnista di ricerca presso l’Università degli Studi di Milano
Bertil Cottier, il Presidente della Commissione europea contro il razzismo e l’intolleranza del Consiglio d’Europa (Ecri), ha raccomandato al Governo italiano di realizzare quanto prima uno studio indipendente volto a esaminare il fenomeno della profilazione razziale nelle attività di polizia, allo scopo di valutarne la portata e favorire eventuali strategie di prevenzione e contrasto.
Vari esponenti politici con incarichi istituzionali e di governo non hanno tardato ad esprimere ancora una volta la propria solidarietà alle Forze dell’ordine, respingendo con sdegno l’accusa di razzismo nei confronti delle polizie italiane, così come era avvenuto ad ottobre dello scorso anno. Il rapporto dell’Ecri del 2024, infatti, aveva già sollevato alcune criticità dell’operato delle polizie italiane, a partire dalla segnalazione di episodi di profilazione razziale in particolare nei confronti di persone Rom e di origine africana.
Sarebbe troppo semplice sottolineare come gli stessi dati del Ministero dell’Interno riferiti ai provvedimenti di allontanamento effettuati dalla polizia in attività di controllo altamente discrezionali, come quelle previste dalle ordinanze prefettizie che istituiscono le zone rosse in alcune città italiane, sollevino, se non altro, proprio la necessità di un rigoroso approfondimento. In base al contenuto dell’infografica ministeriale del 14 maggio 2025, infatti, le persone controllate sono state in tutto 555.181, mentre dei 4.122 provvedimenti di allontanamento, 3.073, pari al 74,5%, hanno riguardato cittadini/e stranieri/e. Due dati che, messi uno in relazione all’altro dicono molto poco. Per capire qualcosa di più occorrerebbe sapere quanti dei 555.181 controlli hanno riguardato persone straniere, ma anche sulla base di quali criteri sono stati allontanati più stranieri/e che italiani/e. A ben vedere, uno studio indipendente che metta a disposizione della comunità tutti i dati e le informazioni raccolti, affinché possano essere discussi pubblicamente, potrebbe davvero aiutare.
Ma non è solo una questione di dati. Occorre fare chiarezza su alcuni termini. Innanzitutto, in letteratura, l’espressione “profilazione razziale” (racial profiling) fa riferimento a quelle pratiche esercitate dalle Forze di polizia che, nel valutare chi sottoporre a un controllo, attribuiscono un peso preponderante a caratteristiche individuali, tra cui la razza, l’etnia, l’origine nazionale o l’apparenza religiosa, al fine di costruire e monitorare un profilo tipico di persona considerato potenzialmente più incline a compiere dei reati. Inoltre, è necessario precisare anche cosa s’intenda per razzismo nelle società contemporanee e perché le istituzioni democratiche, tutte, non possano esimersi dal fare i conti con questo fenomeno.
Come molti sociologi hanno evidenziato (ad esempio, Michel Wieviorka, Pierre Bourdieu, Aníbal Quijano ed Edward Telles, per citarne alcuni appositamente stranieri per sottolineare che il tema riguarda tutte le società contemporanee) la razza, intesa non come concetto biologico, ma come esito di una costruzione sociale, è ancora rilevante nelle interazioni e nelle dinamiche sociali quotidiane. Per questo motivo, non si può prescindere dal considerarla come una categoria analitica essenziale per comprendere le disuguaglianze e i rapporti di potere nelle società contemporanee. Nonostante ciò, persiste una marcata reticenza a utilizzare il termine “razzismo”, quasi a voler negare l’esistenza di discriminazioni basate sulla “razza”. Al contrario, il razzismo è una componente tuttora presente nelle nostre società (e non un’eredità di un passato ormai lontano) configurandosi, anzi, come un fenomeno istituzionale nel senso teorizzato per la prima volta da Stokely Carmichael e Charles Hamilton nel 1967. Il razzismo istituzionale si manifesta in una modalità più sottile rispetto a quello individuale, in quanto attraversa l’intera società e rappresenta una forma di discriminazione che pervade tutti i suoi ambiti, le sue istituzioni e le pratiche quotidiane. Proprio per la sua diffusione capillare, Grada Kilomba adotta l’espressione everyday racism per coglierne la sua dimensione sistemica e quotidiana.
A partire da questi spunti, occorre constatare che, proprio come qualsiasi altra istituzione, le polizie sono culturalmente parte della società in cui operano e sarebbe inverosimile immaginare che non siano attraversate dagli orientamenti culturali radicati in quella società, compresi quei pregiudizi e stereotipi basati sulla divisione razziale, che in Italia, Paese in cui l’immigrazione è un fenomeno più recente rispetto ad altri contesti europei, spesso si sovrappone a quella tra italiani e stranieri. Tuttavia, il dibattito pubblico e istituzionale tende a negare questo aspetto, spiegando l’eventuale presenza di discriminazioni come il risultato del comportamento scorretto del singolo agente, piuttosto che come espressione di dinamiche sistemiche più profonde. Questo tipo di narrazione contribuisce a minimizzare la portata strutturale del problema, spostando l’attenzione dalle pratiche e da eventuali bias istituzionalizzati alla responsabilità del singolo (la cosiddetta “mela marcia”).
Per cercare di comprendere appieno il fenomeno, occorre invece spostare il focus dal singolo comportamento discriminatorio all’intera istituzione di polizia. Prendendo in prestito il concetto di “soglia di accettazione della violenza”, sviluppato da Roberto Cornelli nel suo libro La forza di polizia, uno studio criminologico sulla violenza (Giappichelli, 2020), potremmo parlare similmente dell’esistenza in ciascun Paese di una soglia di accettazione del razzismo che varia in base alle specifiche sensibilità culturali, storiche e sociali di ogni contesto nazionale, influenzando ciò che viene percepito come accettabile, tollerabile o, al contrario, inaccettabile nei confronti di pratiche discriminatorie o razzializzanti. Inoltre, all’interno di uno stesso contesto sociale, la soglia di accettazione del razzismo può differire significativamente tra le diverse componenti istituzionali e sociali. Ogni realtà, infatti, elabora specifici limiti di tolleranza nei confronti di determinati atteggiamenti e pratiche sensibili alla razza, in relazione a sistemi di valori e sentimenti ambivalenti, quali (in)tolleranza, integrazione, accoglienza, paura, senso di minaccia e di contaminazione. Questi fattori contribuiscono alla costruzione di gerarchie implicite che portano a percepire alcuni soggetti come meno meritevoli – o meno degni – di altri, fino al punto di favorire pratiche deumanizzanti nei loro confronti.
Numerose ricerche sui fermi e controlli (stops and searches) svolte nel Regno Unito, in Francia e in Germania hanno mostrato una tendenza delle forze dell’ordine a fermare con maggior frequenza persone appartenenti a minoranze etniche, soprattutto giovani.
Anche in Italia sarebbe importante realizzare studi analoghi, al fine di consentire una migliore conoscenza delle istituzioni del controllo e delle loro rappresentazioni sociali. Alcuni tentativi in tal senso sono stati realizzati, come il corso sperimentale tenutosi a Milano da Roberto Cornelli e Adolfo Ceretti, che ha promosso il dialogo tra giovani con background migratorio e forze dell’ordine su temi come il razzismo e il rispetto. Un’altra ricerca, tuttora in corso e condotta da Roberto Cornelli e da me, sta indagando la relazione tra forze dell’ordine e giovani con background migratorio nel quartiere San Siro di Milano, considerando le esperienze e le percezioni di entrambe le parti. L’obiettivo è proprio quello di contribuire ad ampliare la conoscenza sulle pratiche di polizia in contesti considerati problematici e stimolare una riflessione sulle strategie necessarie per migliorare la capacità delle istituzioni del controllo di rispondere efficacemente alle nuove sfide sociali legate alla presenza di giovani appartenenti a minoranze etniche.
L’osservazione di tali pratiche non sarebbe utile solo alle istituzioni, chiamate a confrontarsi con i cambiamenti sociali, ma rappresenterebbe anche un importante esercizio di democrazia. Resta da chiedersi se le istituzioni politiche, a partire dal Governo, siano in grado di cogliere l’importanza di favorire e supportare la ricerca in questo ambito. Rispondendo alla richiesta del Consiglio d’Europa, sono certa che le Università sarebbero pronte a fornire il loro contributo.
Articolo tratto e concesso da crimepo.it