La “nuova strategia” annunciata dal presidente
sembra ricalcare la strada seguita finora
che non solo non risulta vincente, ma neppure
lascia intravedere soluzioni possibili
all’attuale caos sanguinoso
Non sarà l’impiccagione di Saddam Hussein – seguita da quella dei suoi più stretti collaboratori - a segnare una vittoria che George W.Bush e il suo staff attendono invano di mese in mese, spostandone il traguardo sempre più avanti. Del resto era prevedibile, anzi previsto, il contrario. A peggiorare la situazione ci sono stati i due video dell’esecuzione – quello ufficiale e quello “clandestino” – che per il prestigio americano hanno rappresentato un flop mediatico di dimensioni planetarie. Nella macabra sceneggiata che abbiamo tutti visto, l’ex dittatore iracheno è apparso come l’unica figura dignitosa, calmo e sprezzante anche con il cappio già messo al collo, circondato da un gruppo agitato di boia con il volto coperto che lo insultavano, inneggiando al leader sciita Moqtada al Sadr. Un autentico linciaggio, che ha fatto inorridire, anzitutto negli Stati Uniti, persino chi è favorevole alla pena capitale. E un tiranno carico di delitti, si è guadagnato sul patibolo un rispetto che, giustamente, non aveva mai ottenuto quando era al potere. Di qui a trasformarlo in un “martire” per le masse arabe sunnite, il passo non poteva che essere breve.
Insomma – al di là delle sacrosante posizioni contrarie alla pena di morte – l’esecuzione di Saddam è stato l’ennesimo errore. Sostenere che si è trattato di un “affare interno iracheno”, è un argomento obiettivamente risibile al quale nessuno può prestare fede. Il prigioniero è rimasto fino a dopo la condanna nelle mani dei militari americani: una volta consegnato alle autorità irachene, il debolissimo governo del premier Nuri al Maliki (egli stesso sciita, ma formalmente “moderato” ) avrebbe inevitabilmente dovuto abbandonarlo nelle mani dei miliziani di Moqtada al Sadr, il leader filo-iraniano dell’”armata del Mahdi” che da tre anni controlla gran parte del sud, da Nassirija a Bassora. E ha una solida base in una grande zona di Bagdad che porta il suo nome. Se è vero che a Washington avrebbero preferito procrastinare l’esecuzione di Saddam, e soprattutto che questa avesse uno svolgimento diverso, si è trattato di un calcolo sbagliato, fatto senza considerare i reali rapporti di forza all’interno della coalizione sciita.
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“Rumsfeld, Cheney e il presidente hanno commesso un grosso errore legittimando la necessità di fare la guerra in Iraq. Hanno dato grande enfasi alle armi di distruzione di massa. Finora non ho mai affermato in pubblico di aver pensato che avessero commesso un errore, ma mi rendo perfettamente conto che c’è stato un errore nel loro modo di legittimare ciò che si accingevano a fare”: lo ha detto l’ex presidente Gerald Ford, repubblicano, in una lunga intervista registrata, rilasciata a Bob Woodward nel luglio 2004 (per essere inserita in una biografia) da rendere pubblica dopo la sua morte, avvenuta il 26 dicembre scorso. Gerald Ford era succeduto, essendo vicepresidente, a Richard Nixon, travolto dallo scandalo del Watergate, nell’agosto 1974. Nell’aprile 1975 aveva dovuto gestire il difficile e traumatico abbandono del Vietnam, un’operazione, già pianificata da Nixon, che si è rivelata in seguito, fino ai nostri giorni, saggia e proficua. “Non credo che se fossi stato io presidente avrei fatto la guerra sulla base dei fatti noti così come li ho potuti conoscere ufficialmente. Non credo che avrei ordinato di partire in guerra in Iraq. Avrei invece moltiplicato al massimo i nostri sforzi tramite le sanzioni, tramite le restrizioni, o qualsiasi altra cosa, per trovare un’altra risposta”. Parlando con Woodward (che era stato uno dei due giornalisti a scoprire le magagne del Watergate) Gerald Ford ha ricordato che per condurre a buon fine il conflitto in Vietnam – che né lui né Richard Nixon avevano iniziato - non aveva esitato ad affrontare il prestigioso segretario di Stato Henry Kissinger, togliendogli l’incarico di consigliere per la sicurezza nazionale.
Il parere dell’ex presidente si aggiunge a quelli espressi da molti altri esponenti politici americani, democratici e repubblicani. L’Iraq è ormai sempre più “la guerra di Bush”, ma forse questa definizione non è del tutto equanime.
La guerra aveva avuto inizio alle 3.35 del 20 marzo 2003, e alle 4.15 il presidente annunciava:”E’ cominciata la guerra di liberazione dell’Iraq”. In realtà il motivo sostenuto da Washington non era la liberazione degli iracheni dalla dittatura, ma il possesso di armi chimiche e la preparazione avanzata di armi nucleari, oltre ai legami di Saddam Hussein con il terrorismo islamico. Da tempo, è stato provato – anche da autorevoli commissioni del Senato americano – che queste premesse erano basate sul nulla. Saddam non aveva, né stava allestendo, armamenti “non convenzionali” (anzi, scarseggiava anche di quelli “convenzionali”), e non aveva mai permesso ad Al Qaeda di mettere piede in Iraq: era un tiranno sanguinario, ma diffidava dell’estremismo fondamentalista, sia sciita che sannita: del resto. Osama bin Laden lo ripagava accusandolo pubblicamente di “ateismo”.
Detto questo, ci si può chiedere se George W.Bush fosse sinceramente convinto delle accuse avanzate. E se lo fossero il vicepresidente Dick Cheney, il segretario alla difesa Donald Rumsfeld, e Condoleeza Rice, allora consigliere per la sicurezza nazionale. L’affare del “Nigergate” rivelava, due anni fa, che la Cia aveva assodato come le “prove” di un approvvigionamento di uranio arricchito in Niger (sostenute in un dossier fabbricato dall’ex collaboratore del Sismi Rocco Martino) erano assolutamente false, nonostante che Cheney insistesse perché fossero considerate valide. E anche gli ispettori dell’Onu ripetevano che in Iraq non vi era traccia delle armi proibite. Allora? Perché Bush ha voluto una guerra priva di motivazioni che ha fornito un nuovo terreno operativo – dopo la sconfitta dei talebani in Afghanistan – al terrorismo jihadista, ha trasformato l’Iraq in un caos sanguinoso, ha rafforzato le mire egemoniche dell’Iran degli ayatollah, ha sacrificato inutilmente più di tremila militari americani, e ha fatto precipitare il suo indice di gradimento in patria al 33%?
E’ stato detto e ripetuto che George Bush junior aveva “un conto aperto” con Saddam Hussein. Ma quale “conto”? A dire il vero, sembrerebbe piuttosto che il presidente sia caduto, o lasciato cadere, in un fraintendimento, e che non abbia valutato a fondo l’esperienza paterna. Nel 1991, il presidente George Bush senior, guidando una coalizione di Paesi occidentali e mediorientali, aveva scacciato Saddam dal Kuwait, invaso a tradimento dal rais, ma si era rifiutato di far proseguire l’avanzata e di occupare l’Iraq. A ragion veduta: il presidente sapeva bene quanto fosse rischioso togliere brutalmente il coperchio al vaso di Pandora iracheno. Anche se quel coperchio si chiamava Saddam Hussein.
Del resto, il dittatore di Bagdad negli anni ’80, durante la guerra con l’Iran, aveva usato armi chimiche e biologiche contro i “guardiani” della rivoluzione khomeinista, e lo aveva fatto con il beneplacito degli Stati Uniti che non esitarono a fornirgli finanziamenti per l’acquisto delle sostanze necessarie in Gran Bretagna, in Germania, in Francia e in Italia: secondo l’avvocato Giovanni Di Stefano, uno dei difensori di Saddam al suo processo, nel 1983, il dittatore intascò 1,5 miliardi di dollari, ma da aziende dei Paesi suddetti si fece rilasciare, dietro lauto compenso, delle false fatture da mostrare ai suoi finanziatori. Forse un secondo e più approfondito procedimento giudiziario, di fronte a una corte di giustizia internazionale, avrebbe potuto avere risvolti interessanti.
Comunque, anche se è stato lui a prendere la testa dell’iniziativa, va detto che la responsabilità del disastro iracheno deve essere addebitata in buona misura alla presenza e ai comportamenti di consiglieri poco avveduti, e di “amici” scarsamente affidabili. I primi si erano talmente invischiati nei loro giochi di potere (ad esempio, mettendo all’angolo la “colomba” Colin Powell, che da militare ricordava l’amara esperienza del Vietnam) da finire col credere alle proprie menzogne. I secondi, soprattutto in Europa, avevano creduto di vedere l’occasione da non perdere per puntare – con incauto, e quasi giubilante ottimismo - su un vincitore ritenuto sicuro, concorrendo così a spingere “l’amico George” verso un errore disastroso.
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Quali che siano le sue doti di statista, George W.Bush dovrebbe essersi reso conto di trovarsi in una trappola micidiale da lui stesso creata, dalla quale uscire è molto difficile. Ma dopo quattro anni di una guerra fallimentare che gli americani riescono sempre meno a comprendere e ad accettare, non può e non vuole dichiarare che quella guerra è stata uno sbaglio. Se lo facesse dovrebbe ammettere la propria incapacità a guidare una grande nazione come gli Stati Uniti, e probabilmente Bush è davvero convinto di avere una “missione” che non esita a definire “divina”.
Così, il presidente ha deciso di “raddoppiare”, rifiutando anche le conclusioni del comitato bipartisan per l’Iraq, presieduto da James Baker, esponente repubblicano, ex segretario di Stato ed amico di George Bush senior, che indicava la via della soluzione politica,con un coinvolgimento diplomatico di Siria e Iran. In realtà il raddoppio è un’aggiunta: altri 21.500 militari da inviare nel corso dei prossimi sei mesi. “E’ la ricetta per un disastro ancora più grande - ha commentato a caldo, dopo l’annuncio di mercoledì 10 gennaio, il New York Times – Bush aveva l’opportunità di smettere di vendere fumo, e di essere onesto con la nazione. Non lo ha fatto”. E i commenti negativi sono seguiti, da parte di democratici e repubblicani, in sintonia con un’opinione pubblica amareggiata e preoccupata.
“Il presidente Bush ha riconosciuto ciò che la maggior parte degli americani già sanno: in Iraq non stiamo vincendo, malgrado il coraggio e l’immenso sacrificio dei nostri soldati. In realtà la situazione è grave, e sta peggiorando”, è stata la risposta ufficiale dei democratici, espressa da Dick Durbin, vicepresidente del Senato. E gli ha fatto eco il senatore repubblicano Sam Brownback, candidato alla nomination per le elezioni presidenziali del 2008:”Mandare nuove truppe non è la risposta. L’Iraq ha bisogno di una soluzione politica, non militare”. E Gordon Smith, senatore repubblicano dell’Oregon:”Stiamo prorogando una tattica inefficace per sostenere lo status quo: devono essere gli iracheni a fare pace tra loro”.
Da Bagdad, dove si trovava per la terza volta in missione, incontrando anche il premier Nun Al Maliki, la senatrice Hillary Clinton, dopo aver giudicato la posizione di Bush “viziata da incompetenza e arroganza”, ha espresso seri dubbi sia sulla strategia del presidente che sull’affidabilità del governo iracheno:”Non credo che il popolo americano e il Congresso pensino a questo punto che la missione possa funzionare. E non essendoci un impegno accompagnato da azioni da parte del governo iracheno,perché dovremmo crederci ? Sono scettica sul fatto che il governo iracheno farà quello che ha promesso, e penso che la cosa sia preoccupante per tutti”. Concludendo che invece di inviare altri soldati, Bush dovrebbe pensare a come iniziare il ritiro di quelli che già sono lì. Ed è stato un esponente repubblicano, Chuck Hagel, ad evocare lo spettro che, dopo trent’anni, ancora inquieta i politici americani:”Questo è l’errore di politica estera più pericoloso dai tempi del Vietnam”.
Nel suo discorso del 10 gennaio, seguito poi da altri interventi sullo stesso tema, George W.Bush ha affermato che la situazione in Iraq “è diventata inacettabile per gli americani, e anche per me. Mi assumo la piena responsabilità per gli errori commessi. E’ chiaro che dobbiamo cambiare la nostra strategia”. Evidentemente, il capo della Casa Bianca si riferiva a “errori” tattici, magari imputabili ai suoi generali, o dall’ex segretario di Stato Donald Rumsfeld. Quanto alla strategia, sembra difficile che essa sia diversa aggiungendo 21.500 soldati ai 130.000 già presenti. Sotto questo aspetto, il piano annunciato appare persino riduttivo, e largamente basato su ipotesi non molto verosimili. Cinque nuove brigate statunitensi, operando insieme a 18 brigate irachene, dovrebbero garantire la sicurezza a Bagdad. “Il governo iracheno nominerà un comandante militare, e due vice, nella capitale. Le nostre truppe agiranno inserite nelle formazioni irachene”. Altri 4.000 soldati americani saranno inviati nella provincia di Anbar, dove vi sarebbero delle basi dei terroristi di Al Qaeda. Bush ha aggiunto di avere preso in esame altre soluzioni (anche quelle politiche?), e di essere convinto che un ritiro americano “provocherebbe il collasso del governo iracheno, lacerando il Paese. E causando stragi di dimensioni inimmaginabili”. L’obiettivo finale per il presidente resta sempre la “vittoria”, e comunque la situazione dovrebbe essere seguita da un gruppo di lavoro bipartisan.
Allargando l’orizzonte, Bush ha affermato l’esigenza di bloccare gli aiuti che Iran e Siria forniscono agli insorti iracheni e ai terroristi, cadendo qui in una inevitabile contraddizione: l’Iran assicura un sostanzioso appoggio alle milizie sciite che si battono contro gli insorti sunniti, e gli sciiti sono il bersaglio preferito dei terroristi di Al Qaeda. Al di là di queste considerazioni, vi sarà un dislocamento di missili Patriot nella regione, e “Paesi come l’Arabia Saudita, la Giordania e gli Stati del Golfo devono comprendere che una sconfitta americana in Iraq darebbe vita a un nuovo rifugio per tutti gli estremisti”.
Le reazioni occidentali alla “nuova strategia” di George W.Bush hanno oscillato tra la cautela e la freddezza. “Non è al momento nostra intenzione mandare altre truppe2, ha dichiarato il ministro degli esteri britannico Margaret Beckett. In realtà, lo stesso giorno in cui il presidente annunciava il suo rilancio militare, Tony Blair comunicava che le forze britanniche avrebbero lasciato Bassora entro febbraio, cioé un paio di mesi prima del previsto, precisando che sull’Iraq deciderà insieme al Parlamento. E, secondo informazioni riportate dal Daily Teleghaph, entro la fine di maggio i soldati di Sua Maestà in quel Paese passeranno da 7.100 a 4.500. “Si deve sperare che gli Stati Uniti riescano a pacificare l’Iraq poiché anche noi abbiamo ugualmente interesse alla stabilità nella regione e nel Paese. Vi è però un certo scetticismo non solo negli Stati Uniti, ma anche da noi in Germania”, ha commentato Karsten Voigt, responsabile nel governo tedesco del coordinamento dei rapporti Germania-Usa. E i ministro degli Esteri francese Philippe Douste-Blazy ha detto che “al di là della proposta fatta dal presidente Bush, la sola soluzione affinché l’Iraq ritrovi la sua stabilità, la sua sovranità, la sua integrità territoriale e la sua unità nazionale, è primariamente la partecipazione di tutte le componenti civili, politiche e religiose alla vita della società irachena. “La ricerca di una via di uscita dalla situazione irachena non passa attraverso un incremento della pressione militare”, è stata l’opinione espressa dal ministro degli esteri italiano Massimo D’Alema; riaffermando l’amicizia, e una “fedeltà critica”, con gli Stati Uniti, D’Alema ha osservato che dovrebbero essere le autorità irachene con delle forze di sicurezza e un esercito creati su base multi-etnica a “impedire quello scontro religioso che non si capisce come possa essere evitato dall’intervento di un esercito straniero”. “E’ un pesante fardello quello che Bush sta portando, e il governo australiano continuerà a sostenerlo”, ha assicurato il premier John Howard, affrettandosi però a precisare:”Per quanto riguarda l’Australia non vi sono implicazioni dirette nelle parole del presidente. Abbiamo in Iraq una forza di misura appropriata, che può essere mantenuta”. Cauta la reazione della Cina, attraverso le parole di Liu Janchao, portavoce del ministero degli Esteri di Pechino. Mentre Taro Aso, ministro degli Esteri giapponese, si è limitato a un cortese e poco impegnativo augurio:”Spero fortemente che gli sforzi americani per la stabilità e la ricostruzione in Iraq procedano in modo efficace e portino buoni risultati. Il Giappone continuerà a comunicare e a collaborare strettamente con gli Stati Uniti”.
Anche se è obbligato a sostenere il contrario, è lecito dubitare che il presidente tragga un reale conforto dall’adesione alla sua manovra dell’attuale governo iracheno. “Questo piano è foriero di speranza2, ha proclamato Bassem Ridha, consigliere del premier Nuri Al Maliki. Ma Al Maliki e il suo esecutivo non controllano nulla al di fuori della “zona verde” di Bagdad, e anche quella grazie ai militari americani e ai “contractors” stranieri. Per il resto, Bagdad, e tutto l’Iraq – con l’eccezione del Kurdistan, ormai quasi del tutto indipendente – sono in mano a milizie, squadroni della morte, rivoltosi, terroristi. L’esercito e le forze di polizia sono nel migliore dei casi del tutto inefficienti, e nel peggiore delle milizie con una divisa. L’effetto più pesante della guerra è stato l’ingresso nel Paese dei terroristi, seguaci o imitatori di Osama bin Laden, e il prevalere degli sciiti: i quali – in questo Bush ha ragione – sono sostenuti sempre più massicciamente dall’Iran. Moqtada Al Sadr, il capo dell’”esercito del Mahdi”, ha un esercito di 250.000 uomini bene armati, e oggi sfida i militari Usa a provare a fermarlo. Quello che i soldati americani devono affrontare è un conflitto non solo durissimo, ma assurdo. Non c’è un solo nemico da affrontare. In Iraq tutti sono nemici di tutti, nella guerra civile più caotica che si possa immaginare.
Detto questo, sarebbe da folli limitarsi a constatare che se George W.Bush si trova in questa situazione può rimproverare anzitutto se stesso. Gli errori del presidente ricadono fatalmente su tutti noi, americani e non. Vi sono delle minacce reali, come il terrorismo fondamentalista, che vanno affrontate insieme, con decisione e intelligenza. L’America deve essere aiutata a uscire dal pantano iracheno: è un fatto di amicizia, certo, ma anche di interesse comune.
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