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Aprile/2007 - Articoli e Inchieste
Sport
La violenza di un abbraccio
di Eleonora Fedeli

Il pugilato sopravvive, seppure
nell’ombra, forte della sua storia
e della sua leggenda, dei grandi uomini
che l’hanno praticato, e delle vite che ha
riscattato: e alla sua base, intelligenza
e rispetto reciproco tra gli atleti


George Foreman, leggendario campione del mondo dei pesi massimi, diceva che il pugilato è lo sport al quale tutti gli altri sport aspirano. Miscela di passione e sudore, di volontà, di coraggio e determinazione, il pugilato ha affascinato poeti e scrittori di tutti i tempi che, nelle pagine dei loro libri, hanno tentato di catturare la magia del combattimento. Eppure, ad oggi, è uno degli sport più emarginati, cancellato dalle pagine dei quotidiani e dai palinsesti televisivi, ignorato nelle competizioni sportive più o meno importanti (come, ad esempio, i Giochi Olimpici), a causa della sua presunta violenza. A dire il vero, se immaginiamo un match di pugilato, siamo molto più vicini alla realtà paragonandolo a una partita a scacchi, piuttosto che a una rissa in un vicolo. Perchè il pugilato è uno sport mentale, in cui bisogna fare la mossa giusta al momento giusto, sentire il tempo, come in una danza, anticipando quello dell’avversario. Non è l’odio che spinge due pugili a battersi, ma la stima e il rispetto reciproci, il coraggio di confrontarsi ad armi pari, di rischiare il tutto per tutto, di giocarsi, un round dopo l’altro, i sacrifici e le speranze di una vita. Fino al suono dell’ultima campana, quando, dopo aver sofferto e lottato, tutto finisce in un sublime abbraccio.
Viene da pensare, allora, che la violenza vada cercata altrove. Magari in un campo di calcio o sugli spalti di uno stadio. Oppure in uno spogliatoio, dove i calciatori, delusi dal risultato di una partita, se le danno di santa ragione. Come accadde nel novembre del 2000, quando il centrocampista del Como Massimiliano Ferrigno ridusse in fin di vita l’ex compagno di squadra Francesco Bortolotti del Modena, sferrandogli un pugno in piena faccia.
La violenza non va cercata in due uomini che si battono con onore su un ring, ma nel tentativo di prevaricare l’altro, di schiacciarlo, aspettando di essere in tanti contro uno; nell’imposizione della propria volontà con le minacce, nelle ritorsioni, negli striscioni razzisti che decorano gli stadi italiani. Nel nostro Paese, il calcio miete vittime fra i ragazzi che lo seguono, fra gli agenti di Polizia, fra gli arbitri e gli stessi calciatori, eppure resiste nelle pagine dei quotidiani e nei servizi dei telegiornali, che ci informano sul peso di Ronaldo e sugli amori di Vieri. Gli scandali e le vicende più tragiche vengono spolpate fino all’osso nello sciacallaggio mediatico che si consuma in pochi giorni e che poi s’indirizza altrove: le vittime e le loro famiglie finiscono nel dimenticatoio, mentre il dorato mondo del calcio continua a girare.
Fortunatamente il pugilato sopravvive, seppure nell’ombra, forte della sua storia e della sua leggenda, dei grandi uomini che l’hanno praticato e delle vite che ha riscattato. E’ impossibile cancellare dalla memoria il sorriso buono di Primo Carnera; le lacrime di Rocky Marciano dopo aver mandato al tappeto il suo mito Joe Louis, simbolo dell’America democratica e multietnica; l’impegno politico di Muhammed Alì, che rinunciò alla licenza di pugile rifiutandosi di combattere in Vietnam. E’ vero, oggi la boxe non riempie più le arene, ma attira migliaia di persone nelle sale cinematografiche, emozionando con le sue storie di redenzione, con i suoi personaggi tenaci e disincantati, pieni di sogni e contraddizioni, con la sua forza evocativa, che lo rende una delle più pregnanti metafore della vita. Anche per chi non ha mai indossato un paio di guantoni.

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