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Agosto-Settembre/2007 - Analisi
La Cina è (forse troppo...) vicina
di Emilio Belfiore

Naturalmente la Barbie fa sempre notizia, ed è quindi inevitabile che la testimonial dello scandalo del “made in Cina” sia lei, la bambola sempiterna, nata nel dopoguerra come modello di un consumismo rosato e sbrigativo all’insegna dell’ottimismo. Dalla bionda fanciulla di plastica l’azienda americana Mattel era partita per costruire quello che è diventato l’impero mondiale del giocattolo, con una proliferazione di personaggi e giochi destinati a bambini di ambo i sessi e di ogni età.
Ma ora è arrivato l’“agosto nero” della Mattel; l’azienda ha dovuto ritirare dal mercato 18 milioni di pezzi. Perché? Perché si è scoperto quello che già si sapeva, cioè che Barbie e i suoi fratelli, nati americani doc, erano diventati cinesi. Non per scelta ideologica, ma per motivi economici di una semplicità elementare: in Cina i lavoratori sono pagati pochissimo, non hanno il diritto di scioperare, e nemmeno di protestare. Di conseguenza la produzione è garantita a costi molto bassi, e per le grandi imprese è in assoluto più conveniente appaltarla a delle aziende cinesi, invece che ricorrere a una manodopera “occidentale”. Un vantaggio che però, come spesso accade, ha delle ricadute negative sul piano della qualità, e della sicurezza del prodotto: nel caso della Mattel si è scoperto che dei giocattoli venivano colorati con una pittura resa tossica dall’alto contenuto di piombo, più altri difetti accessori, come la presenza in alcuni modelli di piccoli magneti che potrebbero essere ingeriti dai piccoli consumatori con effetti mortali.
“Il nostro obiettivo è fare prodotti che abbiano requisiti di assoluta sicurezza, con rigorose procedure di controllo in termini di rafforzamento su standard di qualità e sicurezza - ha dichiarato Robert Eckert, presidente della Mattel -. La nostra preoccupazione, non appena venuti a conoscenza della mancanza dei requisiti necessari, è stata quella di attuare efficaci iniziative per correggere e risolvere i problemi di sicurezza”. E mentre il titolo del colosso del giocattolo subiva a Wall Street un clamoroso ribasso, veniva messa sotto accusa una catena di appalti e subappalti: la Early Light Industrial, una delle fornitrici cinesi di giocattoli, la verniciatura di alcune parti dei pezzi era passata a Hong li Da, altro fornitore, che a sua volta l’aveva subappaltata alla Lee Der Industrial Company, il cui proprietario Zhang Shuhong, originario di Hong Kong, l’aveva impiantata nella provincia di Guangdong. Zhang, l’ultimo anello della catena, al quale in passato il governo cinese aveva tolto il permesso di esportazione, si è impiccato, in perfetto stile confuciano, al soffitto di un capannone della sua fabbrica.
In realtà quello della Mattel è solo un esempio, una sorta di parabola, e lo scandalo non è arrivato come un fulmine a ciel sereno, perchè da tempo quel cielo è denso di nubi. Detto questo, parlare di una nuova versione dell’antico “pericolo giallo” sarebbe, oltre che di cattivo gusto, sbagliato.
La Cina è ormai, e in misura sempre crescente, il più grande produttore di beni di consumo del pianeta. Una nazione di un miliardo e trecentomila abitanti, che ha trasportato le strutture dittatoriali del partito unico in un regime economico-finanziario che vede nascere avventurosi milionari e miliardari allo stesso ritmo dell’America del XIX e XX secolo. In un Paese che mantiene ancora con estrema disinvltura l’etichetta “comunista”. Il cosiddetto “modello cinese” è basato su un principio elementare: sovrabbondanza di una manodopera, miseramente pagata (salari ingeriori al dieci per cento di quelli italiani) e priva di diritti sindacali e politici, flessibilità asoluta imposta dall’alto, una diffusa indifferenza per la salute dei lavoratori e la salvaguardia dell’ambiente. un modello certo non esportabile (perché assolutamente inaccettabile) nei Paesi occidentali, ma che molte grandi, e meno grandi, imprese straniere hanno valutato acquisibile attraverso la delocalizzazione della produzione: alla fine del 2006 queste aziende erano 150.000: Insomma, da ultima icona del marxismo, la Cina è diventata il Paradiso dei Capitalisti, cinesi e di altre nazionalità.
Di questa trasformazione siamo tutti, anche se ignari, gioiosamente partecipi. Ai sistemi di produzione cinesi è direttamente legata l’estenzione, e la relativa accessibilità dei prezzi, di beni di consumo di ogni tipo: telefoni cellulari, computer, giocattoli e giochi elettronici, veicoli a motore, materiale elettrico, mobili, indumenti, scarpe, cosmetici, eccetera eccetera. Fino agli alimenti che prendiamo affrettatamente dagli scaffali del supermercato e portiamo in tavola.
Il rovescio della medaglia, per noi (per i lavoratori cinesi non c’è nemmeno la medaglia), come si è detto, appare quando vengono alla luce le magagne di queste produzioni a bassissimo costo. La Cina ha il priòo posto nelle importazioni nei Paesi dell’Unione Europa, il 25% del totale: nel 2006, sui 924 prodotti giudicati pericolosi, tossici, non conformi alle normative europee, la metà provenivano dalla Cina:
Negli equilibri intrecciati del mercato globale pensare a uno scudo protezionista sarebbe assurdo, e impossibile, ma l’Unione Europea ha comunque messo in atto dei sistemi di controllo. Per quanto riguarda la sicurezza alimentare, il Commissariato europeo alla Salute, diretto da Markos Kyprinou, dispone di 150 ispettorim che da Bruxelles sono costantemente in missione in tutti i Paesi esportatori, e ispezionano i 320 check point, i posti frontalieri attraverso i quali i prodotti alimentari possono entrare nell’Ue. Per tutti gli altri prodotti la competenza è della Commissione europea per la Protezione dei Consumatori, diretta da Megiena Kuneva, che nel luglio scorso ha avuto a Pechino vari incontri con le autorità cinesi: da lei esplicitamente definiti poco soddisfacenti.
In definitiva, il problema resta. E, se si vuole essere obiettivi, la sua soluzione non dipende solo dalla correttezza, e dalla buona volontà dei cinesi: Parafrasando una celebre frasem potremmo dire: “E’ l’economia, bellezza!”

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