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Agosto-Settembre/2007 - Articoli e Inchieste
Istituti di pena
La detenzione unica soluzione?
di Ettore Gerardi

La Regione Lazio e il Garante per i Diritti dei Detenuti
hanno organizzato un incontro che aveva
come tema principale le misure
alternative al carcere anche alla luce
dell’imminente riforma del Codice penale


“Il carcere come estrema soluzione”. Ecco il titolo dell’annuale convegno organizzato dalla Regione Lazio in collaborazione con il Garante dei Diritti dei Detenuti della stessa Regione. Ed in realtà nel corso del convegno tutti gli interventi si sono soffermati sulla possibilità di ampliare e razionalizzare le misure alternative alla detenzione, anche al fine di un loro reinserimento nella società civile.
Il convegno, svoltosi a Roma nella sede del Consiglio regionale, nel luglio scorso ed articolato in due tornate (mattina e pomeriggio) ha visto, in apertura il saluto del presidente del Consiglio regionale del Lazio Massimo Pineschi che ha voluto ricordare i motivi alla base di questo incontro, che rientrano nelle competenze settoriali di ogni Regione.
Il Lazio è stata la prima Regione a varare una legge sui problemi della detenzione, con particolare riguardo alla sanità, alla formazione al rinserimento nel contesto sociale. Proprio sul reinserimento di chi esce dal carcere Pineschi ha voluto ricordare che, in Italia, le misure alternative alla carcerazione stentano a decollare.
La relazione di Angiolo Marroni, (Garante dei Diritti dei Detenuti del Lazio) è stata assai ampia ed approfondita ed in queste pagine la riportiamo integralmente.
Gli interventi sono stati aperti da Antonio Fiorella (professore ordinario di Diritto penale all’Università di Roma3), componente della Commissione ministeriale per la riforma del Codice penale. La sensibilità sui problemi carcerari - ha detto Fiorella - dovrebbe essere costantemente presente fra gli operatori della Giustizia; per questo, è assai importante il progetto di riforma del Codice di cui si occupa, insieme con altri, il senatore Pisapia.
Paola Balbo, esperta di Diritto penale internazionale presso il Tribunale di Torino, ha segnalato le condizioni di sofferenza di molti detenuti non solo in Italia, ma in tutta Europa; di qui la necessità, con determinate condizioni, di prevedere non certo la sospensione della condanna, ma quella della pena. In sostanza si tratterebbe di scegliere funzioni privative della libertà pur senza ricorrere al carcere.
Per quanto riguarda la recidività, Paola Balbo ha segnalato il caso dell’Olanda che ha ritenuto di togliere dal Codice penale quel concetto, per affidare la valutazione, caso per caso, al giudice di merito a seconda del concetto di pericolosità del soggetto. Tale valutazione del giudice di merito, deve tenere conto anche dei parametri sociali che sono a monte del comportamento del colpevole.
Donatella Caponetti, dirigente del Centro Giustizia Minorile del Lazio, ha sottolineato, anch’essa, la validità, per quanto attiene i minori, delle misure alternative al carcere. Su questo problema, ha ricordato Caponetti, esiste un progetto di legge relativo alla carcerazione dei minori.
Paolo Canevelli, magistrato presso il Tribunale di Sorveglianza di Roma. La magistratura di sorveglianza, ha detto Canevelli, per il fatto di collocarsi alla fine del percorso di condanna, è la struttura che ha sempre ben chiara l’esecuzione della pena; spesso proprio la magistratura di sorveglianza, per svariati motivi, è malvista o bistrattata anche dai colleghi togati. Analizzando il problema della custodia cautelare, il magistrato ha riconosciuto che il carcere è spesso una soluzione troppo pesante. Fortunatamente le misure alternative al carcere sono in netta espansione. Misure che, però, a causa di difficoltà burocratiche, sono di difficile applicazione soprattutto in presenza di pene brevi; per quanto riguarda il cumulo delle condanne, si può giungere all’assurdo che, dopo un certo numero di sospensioni di pena, l’ultimo reato commesso trascini l’imputato ad una pena madornale.
Alberto Caperna, sostituto Procuratore della Repubblica presso il Tribunale ordinario di Roma, ha tenuto a ribadire il concetto che la pena sanzionatoria non deve passare, necessariamente, per la carcerazione.
Oreste Dominioni, presidente dell’Unione delle Camere Penali. L’art. 41-bis del Codice penale deve considerarsi come la nostra Guantanamo. E questo perché in Italia esiste e persiste una cultura autoritaria per quanto attiene il percorso carcerario e troppe volte si tende ad escludere la possibilità del recupero sociale del condannato, possibile ed auspicabile anche per colui che delinque nel campo della cosiddetta criminalità organizzata. Insomma si deve dire “basta” all’emergenza che pervade la nostra legislazione penitenziaria anche per i soggetti in custodia cautelare. Le misure alternative, ha concluso Dominioni, non devono rimanere come semplici enunciazioni di principi, ma essere inserite, coraggiosamente, nelle leggi ad hoc.
Antonio Turco, educatore nel carcere di Rebibbia. Alla luce della sua esperienza, ha sostenuto che il nuovo Codice penale dovrebbe essere completato con gli opportuni decreti, al massimo entro cinque anni dalla sua emanazione. Questo perché il mondo sociale è in continua evoluzione e soluzioni che giungono dopo un interminabile lasso di tempo, rischiano di non trovare più i beneficiari.
Avvocato D’Alessandro, ha notato come al convegno mancasse l’interlocutore di riferimento, cioè i politici. In sede di discussione gli operatori carcerari, a tutti i livelli, si sono detti d’accordo su certe innovazioni indispensabili. Ma questa umanità a cosa serve? A chi rappresentarla?
Ezio Savasta, della Comunità Sant’Egidio e volontario nel carcere di Regina Coeli, ha sottolineato i gravi problemi connessi nelle carceri del Lazio, dalla massiccia presenza di stranieri, di poveri, di tossici. Su queste categorie occorre lavorare ancora molto.
Avvocato D’Errico, penalista del Foro di Bologna, si è detto compiaciuto che nel corso del convegno, tutti abbiano concordato sul fatto che il carcere è veramente l’extrema ratio; devono essere proprio le Camere Penali a valorizzare tutte le misure alternative. In ciò è indispensabile l’apporto della politica, ma di quella “alta” non già di quella partitica che, spesso, vede tenere conto delle opinioni dei propri adepti.
Spesso il carcere, come misura cautelare, finisce per colpire gli incensurati con detenzioni che si protraggono anche per otto mesi: e questa è una tendenza che deve essere corretta.

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Hanno detto...

Rita Andreacci, direttore dell’Ufficio Esecuzione Penale Esterna del Lazio.
“Nell’anno 2006, inItalia, ben 27mila persone detenute hanno potuto beneficiare dell’affidamento al Servizio sociale. E questo è un dato positivo giacché occorre sempre ricordare che l’esecuzione penale non è certo solo ed esclusivamente quella entro le mure di un carcere. Resta indubitabilmente un principio, in forza del quale sia entro il carcere che al di fuori per effetto delle misure alternative, bisogna sempre puntare al recupero sociale del soggetto”.

Vincenzo E. Petralla, direttore dell’Ufficio Esecuzione Penale Esterna di Bari.
“La riforma penale del ’75 ha tenuto presente la situazione di quegli anni, ma oggi le cose sono cambiate in modo vertiginoso, soprattutto per quanto attiene l’esecuzione penale esterna. D’altro canto il Servizio sociale, da solo, non può certo seguire le singole situazioni. Mai come oggi occorre una multiprofessionalità per garantire le misure alternative. All’estero, dal’altro canto, questo già accade e con ottimi risultati”.

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I problemi del Lazio

Carenza di personale, inadeguatezza dei servizi sanitari, sottoutilizzo delle strutture: questi i principali problemi che affliggono gli istituti di pena del Lazio, individuati dalla “Commissione Sicurezza e Lotta alla criminalità” della Regione, attraverso una serie di visite alle carceri effettuate tra maggio 2006 e aprile 2007.
Secondo il Presidente della Commissione “l’indulto ha ridotto l’affollamento, ma anche evidenziato come alcune disfunzioni siano strutturali ed indipendenti dal numero dei detenuti”. Tra ottobre e dicembre 2006 i detenuti nel Lazio sono passati da 6.092 a 3.900; dei 2.308 tornati in libertà 1.433 sono italiani e 875 stranieri.
Un contributo di 432mila euro è stato erogato nel 2006 a favore di cooperative sociali per il reinserimento degli ex carcerati.
Per quanto riguarda il carcere di Rebibbia, c’è da registrare un aumento dei detenuti stranieri e delle ragazze-madri.

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