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agosto/settembre/2004 - Articoli e Inchieste
Egitto
In Egitto i precursori della lotta islamica
di Gianni Cirone

L’azione del radicalismo islamico nel paese, contesta dalla repressione delle associazioni religiose studentesche e del movimento “Scomunica ed Egira”, potrebbe trovare terreno fertile per aprire un fronte più vasto sfruttando le nuove posizioni del presidente Mubarak


All’inizio dell’estate odierna, in Egitto si paventa un passaggio epocale. Il presidente egiziano, Hosni Mubarak, (si dice) dovrebbe annunciare l’annullamento dello stato di emergenza, decretato 23 anni fa nel paese. A riferirlo è il quotidiano Asharq al Awsat. Si parla di tutto ciò che segue ad un atto del genere: la concessione della grazia ad un certo numero di prigionieri politici, l’annullamento delle leggi contro la libertà d’espressione e le libertà politiche.
Intanto, però, il governo presieduto dal primo ministro Atef Ebeid si dimette e Mubarak incarica Ahmad Nazif, ministro uscente delle Comunicazioni, per la formazione di un nuovo governo. Ma il cambio di conduzione alla guida del paese altro non è, almeno per gli esponenti dell’opposizione, che un’operazione di facciata, un rimpasto, un piccolo gioco di prestigio, con cui il Rais egiziano, al potere da ventidue anni, cerca di sviare l’attenzione dell’opinione pubblica dai problemi del paese.
In quest’Egitto, che fatica tuttora a decollare dal proprio assetto occidentale, di Stato musulmano ma laico, moderno ma vivo di tradizioni, le alleanze interne continuano a giocare un propria partita. Un partita in larga misura figlia del passato da cui, appunto, Mubarak vorrebbe prendere le distanze, dopo aver partecipato al fronte di chi ha ruvidamente combattuto la pressione dei fautori di un regime islamico.
È sufficiente partire dagli anni ’70 e dal formidabile movimento sunnita che si sviluppa in Egitto, un fenomeno di portata pari solo alle esperienze della Malaysia e del Pakistan. Nel caso del paese delle piramidi, però, l’obiettivo del movimento è di portata primaria e viene centrato: l’uccisione del presidente Sadat.
L’itinerario percorso dalla spinta sunnita imbocca, in Egitto, il volano studentesco. La profonda crisi che questo paese vive nell’ultimo trentennio dal XX secolo si palesa già nell’estate che precede la guerra dell’ottobre 1973 contro Israele. La massa studentesca, in quell’epoca, si è ampiamente raddoppiata superando il mezzo milione di giovani. Questi, al contempo, fanno i conti con un sistema infrastrutturale del tutto inadeguato; pessime le condizioni in cui sono costretti all’apprendimento, ancor più drammatici gli esiti di tanto fervore culturale e di apprendimento che non trova sbocchi applicativi in un mercato del lavoro del tutto affossato.
Al cospetto di tali contingenze fioriscono, in ambito studentesco, le gama’at islamiyya, ovvero le “associazioni islamiche”. Per chi vi aderisce, con maggiore o minore aspettativa, uno solo è il fine che viene indicato: essere iniziati ad una “vita islamica pura”. Cosa s’intende con questo?
Una prassi densa, irrevocabile, insostituibile. Una prassi che mira alla formazione ideologica, alla tecnica della predicazione, al regolare officio delle preghiere, all’apprendimento delle più svariate tattiche di proselitismo, al rafforzamento del vincolo sociale del gruppo e, tra essi, dei gruppi. Humus per l’aggregazione di tali cellule è, per ironia della sorte, proprio quanto stabilito dal legislatore Sadat che, proprio nel 1974, avvia un’azione di democratizzazione delle procedure di rappresentanza studentesca, convinto di non dover temere alcunché da una possibile crescita della sinistra: il rapporto tra questo movimento e il presidente, almeno fino al 1977, sarà idilliaco.
Il lavorio è incessante e coagula, giorno dopo giorno, nuovo materiale umano, interno alle gama’at che, in breve, diverranno contenitori privilegiati di quanti si paleseranno presto come nuovi quadri, indiscussi padroni dei campus universitari. Sarà all’interno di tali associazioni che verrà maturando la risposta alla profonda crisi sociale che, naturalmente, investe l’ambito giovanile, e in particolar modo, quello universitario. E la risposta può racchiudersi in due parole: soluzione islamica.
Una soluzione islamica che, dinnanzi all’incedere dello sfaldamento culturale ed economico di ciò che sino ad allora si è imposto come modello secolare e moderno, contrappone l’imperativo di una società guidata dalla spiritualità o, meglio, da un “sistema totale e completo”: guida ed interprete di un mondo da trasformare.
La peculiarità di un tale associazionismo è quella di saper bene combinare interesse, azioni e risposte per la soluzione di problematiche avvertite realmente, passando comunque, e nel frattempo, attraverso una densa pratica di indottrinamento morale. E allora, ecco l’attuazione di interventi tra i più disparati: dal miglioramento della condizione femminile, che mal sopporta la promiscuità della vita pubblica, fuori dalle mura domestiche, all’assistenza per chi non riesce a tenere il passo con l’avvento di un consumismo che stravolge il modo di essere, vestirsi, apparire. Generosi sponsor donano un sistema di trasporto alternativo agli affollati e rari trasporti pubblici al punto che, in pochi mesi, divengono visibili numerosi minibus utilizzati esclusivamente da donne, nei casi di maggior densità abitativa, solo dai volti femminili che tornano a coprire il proprio viso con un velo.
L’idea di società, dunque, si ricondensa e si subordina ad un’esigenza culturale, religiosa, che discende da un senso di “ordine islamico”. Nel caso suddetto, i trasporti subiscono a questo fine un’opera di privatizzazione. Ma altri sono i casi che consolidano questo andamento: tra i banchi universitari si perpetra una nuova divisione fisica, tra uomini e donne, mentre la lotta contro le costose linee di moda occidentale suggerisce e infine impone una “militarizzazione” dell’abbigliamento, grazie a quella che si definisce come una “tenuta islamica”: velo, grande e lungo cappotto, guanti.
È proprio l’avvento di questa uniforme a sottolineare quanto l’incedere del movimento non tenga in conto il reale superamento delle contraddizioni della società consumistica, ma quanto il mettersi al riparo dietro un appiattimento formale, visibile, tenacemente suggerito e, infine, imposto.
Scrive il medico Issam al Aryan, tra i maggiori giovani ideologi delle gama’at: “L’alto numero delle studentesse che portano il velo è un segno di resistenza alla civiltà occidentale e sancisce l’inizio dell’iltizam (stretta osservanza) verso l’islam”. Su questa strada, in breve tempo, le gama’at esprimono la propria potenza non con una massa di aderenti ma con la mobilitazione di fedeli in tutte le più grandi città dell’Egitto.
Sadat e il suo regime lasciano fare; anzi, sembrano favorire il sostanziarsi di una tale fierezza giovanile, pronti ad utilizzarne il ritorno di immagine ergendosi a tutori di una tale rivoluzione alta, morale, religiosa. Nello stesso modo, Sadat lascia rientrare in patria i Fratelli mussulmani che Nasser ha voluto gettare oltre i confini egiziani. Questi, in Arabia Saudita, hanno rafforzato le proprie casse e sono pronti, adesso, a scommettere sulla nuova formula di politica economica del nuovo presidente, aperta ai privati e, quindi, terreno fertile per l’affermazione di inedite cordate pronte ad invadere l’immobilismo statalista degli anni ’60, anni modellati dallo schema sovietico.
Il “paradigma” di Sadat, e dopo di lui di non pochi governanti di società dell’islam, è il seguente: foraggiare e favorire lo sviluppo di un movimento islamico, sottintendendo in risposta un automatico appoggio politico, anche grazie alla donazione di una non indifferente autonomia culturale che, se possibile, faccia leva negli ambiti più moderati del movimento, sì da renderli baluardi visibili contro ogni forzatura radicale ed estremista. Ma è proprio l’alleanza con i settori moderati del movimento a deteriorarsi tra le mani di Sadat. È l’anno 1977.
È l’anno, cioè, della pace con Israele. È l’anno in cui, pochi mesi prima della fine delle ostilità con lo Stato ebraico, al takfir wa-l hijra, ovvero il gruppo radicale “scomunica ed egira”, prima prende in ostaggio e poi giustizia un ulema. Il gruppo si chiama anche la Società dei mussulmani, ed è la prova di come possa divenire fallimentare il disegno di poggiarsi esclusivamente sulla parte moderata del movimento. La sanguinaria azione di questo pugno di radicali proietta i propri effetti, e il proprio richiamo, nell’intero mondo musulmano, al punto che il termine takfiri, cioè “colui che scomunica gli altri musulmani”, rimarrà valido negli anni successivi per aggettivare molti soggetti ritenuti più settari.
A capo della Società dei musulmani è Shukri Mustapha. Questi, estremizzando la filosofia di Qutb, sostiene quanto segue. Il mondo contemporaneo è composto da una società a-islamica, ovvero jahiliyya. Nessuno, dunque, è musulmano… se non chi decide di riferirsi a lui: a Shukri. Ecco perché gli unici che possono affermare di essere musulmani sono solo i suoi seguaci che, sempre secondo la logica di Shukri, devono vivere divisi dagli empi e, alla bisogna, decidere l’esecuzione di questi ultimi.
L’organizzazione di Shukri lavora alacremente e, pur operando in ambiti ristretti, inizia a tracciare un solco nella Società musulmana, il cui garante politico non registra ancora alcun allarme, interpretando quell’azione come marginale e di nessuna incidenza socio-politica. Alla Società si avvicinano quanti, nell’ambito moderato, sono tagliati fuori dalle potenzialità economiche e produttive che il piano di sviluppo di Sadat promette. Shukri lavora, dunque, su ogni contraddizione palesi il sistema sociale, sia in ambito pubblico che privato. In quest’ultima accezione, giunge addirittura a rompere vincoli coniugali, prospettando convivenze in comunità ben al di là delle possibili, libere scelte di chi vi partecipa.
L’assassinio dell’ulema porta in rilievo due fattori: a) una crescita di conflittualità, ma anche di senso di appartenenza pur se in concorrenza, all’interno del radicalismo islamico; b) la presa d’atto, da parte delle Forze dell’ordine, che è giunto il momento di dare uno stop al gruppo.
Shukri è arrestato, condannato, giustiziato. Ma ciò che emerge, dalla reazione del potere, è la portata dell’attacco al mondo del radicalismo islamico. In brevissimo tempo, infatti, appare evidente quanto la politica di contenimento delle correnti islamiste sia stata vana. Ecco perché, con l’eliminazione di Shukri, passa anche la criminalizzazione del gruppo a cui appartiene l’ulema ucciso e, più in generale, degli islamismi in genere. A ciò si aggiunga che la pace firmata da Sadat con Israele, pone il presidente egiziano in una netta mal sopportazione di chi definisce quell’atto “vergognosa pace con gli ebrei”. È giunto il momento della reazione, insomma. L’Unione degli studenti e le gama’at vengono scompaginati, sciolti, i loro beni alienati, mentre la Polizia fa piazza pulita di tutti i campus estivi.
Dinnanzi a questi eventi, il fronte moderato islamista perde sempre più contatto con le frange radicali: il suo immobilismo, di fronte alle richieste di una risposta violenta contro l’azione di Sadat, acuisce lo strappo. Le gama’at, ormai sciolte, passano alla clandestinità e la loro azione si concentra soprattutto dentro i presidi urbani, dal Cairo ad Alessandria, da Assiut a Minia, tanto per citare le città di provenienza degli imputati per l’uccisione del presidente egiziano, durante la parata militare del 6 ottobre 1981, in commemorazione dell’attraversamento del canale di Suez. La galassia di gruppi radicali monta, pur in un indiscutibile continuo frazionamento delle varie componenti. L’obiettivo, secondo la testimonianza di alcuni degli arrestati, sarebbe quello di utilizzare l’uccisione di Sadat (al culmine, in quel momento, del più ampio dissenso interno a causa della forte repressione posta in atto) come momento trainante per un ribaltamento rivoluzionario. L’ammiccamento va a quanto avvenuto da poco in Iran. Ma le differenze sono sostanziali. Mentre Khomeini instaura un forte rapporto con larghe masse di giovani, diseredati e buona parte della borghesia moderata, l’azione degli islamisti egiziani non genera importanti, quanto larghe fusioni.
Da questo momento, l’azione del radicalismo islamico in Egitto dovrà cedere il passo alla forza e all’organizzazione del potere. I discendenti di quell’azione, però, nella terra delle piramidi come altrove, troveranno terreno fertile per aprire un fronte più vasto, scavalcando il limite dei confini nazionali musulmani, tenendosi al riparo tra la clandestinità, gli accordi sottobanco, gli scambi e le indecisioni dei vari Stati di cultura islamica: sovrani a tutti i costi.

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