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agosto/settembre/2004 - Articoli e Inchieste
Egitto
Le ombre di un paese senza passato e futuro
di Riccardo Miani

Al Cairo non si vive, ma si sopravvive, aspettando, Insh’Allah, un domani che sarà uguale ad oggi


Insh’ Allah! Tutto è racchiuso in questa esclamazione fatalistica, ripetuta con angosciante rassegnazione.
Se Dio vuole!
È un intercalare martellante, usato e abusato in ogni momento, per ogni occasione, per ogni necessità.
Gli uomini, le donne, i bambini non vogliono, non desiderano. Insh’Allah! Domani sarà un altro giorno. Insh’Allah! Domani ci incontreremo.
Insh’Allah! Domani sarà’ “domani”!
Siamo in Egitto, al Cairo, a pochissimi chilometri, quasi si toccano con mano, la Sfinge, le Piramidi, il deserto.
Il Nilo. Il grande Nilo: prolifico, fecondo, fetido, putrefatto, ingombro da milioni e milioni di case, palazzi, alberghi, barconi, chiatte ed una miriade di ombre con sembianze umane.
Ombre che formano un popolo cairota di 16 milioni di abitanti dichiarati e di oltre due milioni (o forse sono tre o quattro milioni) di mai certificati nati vivi, che vivono comunque, abitando anche la “Città dei morti”. Cioè, un cimitero antichissimo costituito da tombe e case, vita e morte, dove tutti sembrano conoscersi, ma nessuno sa di esistere veramente e, comunque, a nessuno interessa.
Ho incontrato un giorno padre Angelo dei Comboniani: “Da quanto tempo siete qui?” Una domanda secca rivolta a me ed a mia moglie. “Da oltre due mesi”, fu la risposta timida, seguita da un’esclamazione inaspettata di padre Angelo: “Siete riusciti a sopravvivere”.
Già, perché al Cairo non si vive, ma si sopravvive, aspettando domani che, Insh’Allah!, arriverà e sarà uguale ad oggi: né meglio, né peggio.
In questo enorme ed informe magma di tutto e di niente, dove si convive con il letame che ognuno produce e riversa indolentemente in tutto ciò che è pubblico, comune; dove ognuno svuota, con ampi gesti circolari delle braccia, sugli strani marciapiedi acqua sporca da brocche e da secchi metallici; acqua che si amalgama con il lerciume che si è obbligati a calpestare, quando decidi di essere normale e cerchi di passeggiare; in tutto questo convivono assenti, inermi, indolenti (o arroganti?) migliaia e migliaia di individui, sporchi e assonnati, che indossano una divisa di panno, pesantemente nero, lercio, sgualcito, informe, con scarponi anfibi inzaccherati e deformi che cercano senza nessuna convinzione di regolamentare un flusso altrettanto abnorme, informe e continuo di carcasse di macchine, che si tengono rumorosamente in piedi, su quattro ruote forse uguali, probabilmente senza freni.
I poliziotti che guadagnano ben 12 euro al mese, cioè 40 centesimi di euro al giorno.
Poliziotti ovunque, agli incroci, sui marciapiedi, sotto una miriade di strane garitte in ferro, formate da un parasole metallico con un sedile metallico monoposto; garitte sbilenche che hanno una lontana somiglianza di fermate d’autobus.
Garitte dove poliziotti, tutti uguali e simili, siedono abbandonati, al riparo di una parvenza d’ombra, con un moschetto appoggiato da qualche parte contro un supporto del parasole o sulle ginocchia, lo sguardo nel vuoto, un bicchiere di the in mano, una sigaretta accesa, a volte sgranocchiando un panino.
Un panino comprato per strada e scelto tra centinaia di panini arabi, di pane azzimo, rotondo, sottile, crostaceo, vuoto, privo di mollica, disposti su una traversa di legno abbandonata sul marciapiede, invaso da folate provenienti da tubi di scarico, di polvere nera, sabbia e letame vario.
E che dire delle frotte, o meglio delle bande di ragazzini sudici che ti avvicinano e cercano di venderti con insistenza e indolenza un ciuffo di menta, o dei fiori o un pacchetto di fazzoletti di carta e che, comunque, ti chiedono “one pound”, cioè 100 piastre egiziane, cioè circa 13 centesimi di euro?
Diventa un dramma se, preso da pietas, allunghi e regali “one pound” a uno dei questuanti bambini. Anche gli altri esigono insistentemente la loro parte. In mancanza di elargizione, il fortunato beneficiario del “pound” viene letteralmente assalito da quelli che, fino a pochissimo tempo prima, erano i suoi compagni sodali di miseria.
L’Egitto dei Faraoni, di re Farouk, di Nasser, di Sadat.
Ognuno di questi ha segnato un’epoca con un inizio ed una fine, senza una continuità progressiva, senza una tradizione di ieri, senza una proiezione di domani, eliminando ogni parvenza di classe media, presupposto di ricambio generazionale e di tradizioni.
L’Egitto che non ha neanche una cucina tradizionale. È un popolo che si è apparentemente americanizzato con i suoi “Pizza Hut”, “McDonald’s”, “Kfc” e con i suoi “home delivery”, ma che ha club speciali riservati solo a famiglie egiziane.
In Occidente sarebbe tacciato di razzismo un semplice bar di periferia che non consentisse l’accesso a chiunque. In Egitto, invece, è semplicemente e categoricamente vietato accedere nei club riservati agli egiziani e la security all’ingresso è lì a ricordartelo.
La security, pubblica/privata, è presente dappertutto. Non c’è palazzo che non abbia almeno due portieri, che hanno funzione di garantire l’inquilino ed informare. Una rete capillare di informatori fa dell’Egitto una Repubblica i cui cittadini sono sempre sotto stretta sorveglianza.
L’Egitto vive al presente. Non pensa al futuro ed il passato è morto.

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