Secondo il sociologo Battistelli, fu determinante il ruolo di Franco Fedeli al fianco delle guardie di pubblica sicurezza

Continua l’impegno della rivista nel ripercorrere le vicende che condussero, quarant’anni fa, all’approvazione della Legge n. 121. Fabrizio Battistelli ha vissuto in prima persona quel decennio, da studioso di scienze sociali, seguendo da vicino l’impegno di Franco Fedeli e dei poliziotti democratici i quali, con determinazione e responsabilità, intrapresero una lunga battaglia per farsi riconoscere come lavoratori in divisa.

Prof. Battistelli, lei è uno dei pochissimi sociologi italiani ad occuparsi di sicurezza e Forze di Polizia: per quali motivi questi temi sono ignorati dalla gran parte degli studiosi di scienze sociali?

Per pigrizia ideologica. Anche se quando fanno le loro analisi le scienze sociali si impegnano a seguire le procedure scientifiche, la loro tendenza soggettiva è contribuire al miglioramento della persona e della collettività. Questa posizione, che con tutte le delusioni che danno le etichette, possiamo definire “progressista”, funziona abbastanza per materie nelle quali sono possibili il dialogo e la ricerca di un accordo soddisfacente per tutti. Tutto diventa più difficile, invece, quando si tratta di gestire quella che il grande sociologo Max Weber chiamava la “forza legittima”, usata dallo Stato quando deve affrontare le aggressioni esterne e le trasgressioni interne. Il ragionamento è perfetto in presenza di uno Stato di diritto guidato da politici responsabili, mentre si complica drammaticamente qualora lo Stato stesso abusi dei suoi poteri. Scostamenti anche gravi dal modello ideale possono verificarsi, e si sono verificati, anche in un Paese democratico come l’Italia, ad esempio a Genova durante il G8 del 2001. Ecco l’importanza dell’opinione pubblica, dei media, del mondo della ricerca, ciascuno dei quali può, nelle diverse competenze, esercitare forme di monitoraggio nei confronti delle istituzioni. In una società democratica queste sono soggette allo “scrutinio” (come dicono gli americani) dei cittadini. Tutte quante, nessuna esclusa: la polizia o le forze armate, così come la scuola, l’università, la sanità, la chiesa. Diciamo che, nel caso delle prime due istituzioni, occuparsene seriamente da ricercatori (ma anche da giornalisti, da semplici cittadini ecc.) è impegnativo e non offre grandi riconoscimenti.

A che cosa è dovuto questo suo interesse di ricerca?

Il mio interesse iniziale ha a che fare con quanto appena detto. Da un lato la carica critica dei vent’anni, coincidendo con il ’68, faceva sì che come generazione non ci piacesse l’esistenza di istituzioni e interi settori della vita sociale di cui non si poteva discutere, addirittura non sapere chiaramente come funzionavano e con quali criteri, dover dipendere dai racconti di singole persone che ne avevano qualche esperienza o, all’estremo opposto, da discorsi ufficiali spesso vaghi e retorici. Personalmente, poi, non mi stava bene che aspetti importanti come la difesa e come la sicurezza fossero trattati da una parte politica (la destra e soprattutto l’estrema destra) come una cosa propria e non come questioni che interessavano tutti. Nell’Italia tra ’60 e ’70 il dibattito in materia di sicurezza era scarso, quello accademico e scientifico pressoché inesistente: qualche contributo isolato di diritto costituzionale, qualche timida analisi di economia politica e di scienza delle finanze. Sociologia, antropologia, psicologia, neanche a parlarne.  Fece scalpore un volumetto, “Il potere militare in Italia”, edito da Laterza nel 1971, nel quale un gruppo di ricercatori avanzava le prime analisi indipendenti sulle politiche del Paese nell’ambito della sicurezza nazionale e internazionale.

Michele Turazza