La ritirata americana da Kabul del 15 agosto ha portato un duro colpo alla credibilità degli Stati Uniti nell’opinione pubblica internazionale, rappresentando all’apparenza una grande sconfitta tanto sul piano politico quanto ideologico

La velocità con cui le forze talebane hanno preso il controllo del paese è stata in effetti sorprendente, riuscendo con un’offensiva durata appena una settimana a conquistare la capitale Kabul. L’esercito afghano, forte di oltre 300.000 uomini, addestrati e armati dalle forze americane, si è praticamente rifiutato di combattere, costringendo alla fuga il presidente del governo Ashraf Ghani, uno dei preferiti dei media statunitensi, che ha prontamente cercato riparo in Oman.
Per l’amministrazione Biden il ritiro, in realtà, ha rappresentato una scelta obbligata, frutto dell’accordo raggiunto nel febbraio 2020 dall’allora amministrazione Trump, sostenuta dal Pentagono, con talebani, India, Cina e Pakistan. Una scelta che tuttavia non teneva conto di alcuni importanti fattori, tra i quali i più importanti erano la natura centralizzata del movimento talebano e la sua capacità di dotarsi di una ideologia strutturata, elementi che hanno reso possibile una vittoria sul campo decisamente più veloce rispetto a qualsiasi scenario ipotizzato dall’intelligence americana.
Non avendo intenzione in questa sede di analizzare le cause di questo repentino collasso della fragile statualità afghana, riteniamo possa essere assai più utile analizzare il significato di questo passaggio storico sul piano delle relazioni internazionali e le possibili conseguenze sul futuro dell’area e delle relazioni tra i partner occidentali.
Sul piano simbolico e ideologico si tratta per gli Stati Uniti di un cambiamento paradigmatico che non deve essere tuttavia inteso, a nostro parere, semplicisticamente come l’avvio di una fase di declino per la superpotenza atlantica: con il ritiro dall’Afghanistan gli USA inaugurano infatti una fase di maturazione e razionalizzazione della propria politica di potenza che tende ora a distinguere in maniera netta tra quelli che sono i suoi interessi strategici e quelli che non lo sono, lasciando ad altri l’onore di gestire i secondi.
Sempre in quest’ottica va infatti visto il dialogo tecnologico e commerciale di queste settimane fra UE e Stati uniti che sembra finalizzato ad una decisa divisione dei compiti all’interno del campo occidentale, con i paesi europei chiamati ora a sobbarcarsi in prima persona rilevanti responsabilità militari, soprattutto navali, in particolar modo nel Mediterraneo.
Per quel che concerne più in generale i rapporti con i paesi alleati della NATO si tratta ovviamente di un passaggio rilevante, dal momento che la struttura ideologica, risalente alla Guerra Fredda, che giustificava il patto atlantico si basava sull’esistenza di una “comunità internazionale” verso cui gli Stati Uniti svolgevano nei fatti il ruolo di “garante” della sicurezza collettiva, mentre la svolta più recente porta Washington a concentrarsi unicamente su ciò che è rilevante per sé, agendo sempre più frequentemente a discapito di partner e alleati. Il ritiro dall’Afghanistan rientra esattamente in questo nuovo approccio, essendo nei fatti un’area di scarso interesse per gli americani, mentre una sua stabilizzazione è ben più importante per Cina e Pakistan, che vicino ai suoi confini hanno alcuni fondamentali corridoi commerciali.

Adriano Manna