Carcere

La Parola del Signore e della Chiesa è sempre uno stimolo ad uscire dai giudizi comuni e ancora di più quando si tratta di prendersi cura di persone più fragili, ed emarginate come possono essere i detenuti nelle carceri. È l’esperienza drammatica e preziosa che vivo ogni volta che vado nel carcere romano di Rebibbia a visitare uomini lì detenuti.
In questo tempo in cui la definizione di “periferia esistenziale” sembra diventata di moda, incontrare di persona un detenuto è prima di tutto sentirsi sgretolare addosso i nostri giudizi spesso costruiti da un perbenismo moralista.
È per me un’intima soddisfazione poter testimoniare che la mia presenza nel carcere di Rebibbia, prima di essere un servizio di carità verso i fratelli detenuti, è anzitutto un’esperienza di conversione personale.
Da quando incontro questi “amici” (li amo chiamare così perché amici li ritengo e così li vivo) avverto una progressiva trasformazione interiore, mia, personale. Se all’inizio del mio servizio, quando sono stata chiamata a questo tipo di pastorale, la ragione che mi ha spinto era quella di offrire il ministero dell’ascolto, della consolazione e della solidarietà a concrete esistenze estremamente emarginate, ora a distanza di tempo, comprendo e sperimento che invece di andare a donare catechesi, ascolto (comprensione), conforto (animazione liturgica), mi rendo conto che vado a ricevere e condividere molto di più di quanto possa timidamente offrire.
In che cosa consiste questo “molto di più”? Consiste nella lucida consapevolezza dei tanti doni di natura e di Grazia ricevuti e che a molti fratelli sono stati spesso negati. Una famiglia sana, una carriera scolastica, una vocazione religiosa, un servizio di responsabilità… tante relazioni, affetti, gesti di stima, considerazione e soddisfazioni dei quali i nostri amici detenuti sono stati privati. Spesso non ne conoscono il significato di quei basilari valori autentici umani. “Questo (solo il male) mi ha insegnato la strada” mi confidava uno di loro.
Consiste inoltre, nella meraviglia di accogliere, in ogni incontro, sì umanità ferite, ma cariche di vita nuova generata da esperienze colme di dolore e negazione. Ed imparo a tacere per ascoltare in profondità. Apprendo a fare spazio per accogliere. Imparo ad offrire per condividere, a non temere di abbracciare per raggiungere le profondità di cuori che sperimentano solitudine e freddezza.
Quanto impara il mio essere donna e religiosa da questi amici che sappiamo essere i “preferiti del Signore”!
Quanto riceve la mia vita di donna consacrata chiamata ed impegnata a vivere i consigli evangelici!
La povertà estrema nella quale spesso si ritrovano i detenuti interroga la mia coerenza alla cura dell’essenzialità e provoca il mio impegno in una condivisione sempre più ampia e gratuita.

Suor Lorena Bonardi