In tutta la Penisola è aumentato l’impiego dei detenuti nelle aziende agricole; un fenomeno che parte da lontano e che negli ultimi anni ha portato risultati concreti sia da un punto di vista economico, sia da un punto di vista sociale e rieducativo

    Formazione, inclusione lavorativa, reddito e produzione, possibilità di costruirsi un futuro migliore nella società. Non sono pochi i benefici riscontrati negli ultimi anni intorno al fenomeno “agricoltura sociale”, specie se messo in relazione al mondo delle carceri. Un fenomeno in crescita e che parte da lontano, ma che solo recentemente ha cominciato a raccogliere seriamente i “frutti”, sia sul fronte del reinserimento delle classi sociali più disagiate, sia (ed è questo il dato più incoraggiante) sul fronte economico, col proliferare di nuove aziende nei più disparati settori agro-alimentari, alcune addirittura in fase di crescita nonostante la recessione dovuta all’emergenza sanitaria.

    Il concetto di agricoltura sociale è piuttosto recente e trae origine dalla L. 18 agosto 2015, n. 141, la quale testualmente «promuove l’agricoltura sociale, quale aspetto della multifunzionalità delle imprese agricole finalizzato allo sviluppo di interventi e di servizi sociali, socio-sanitari, educativi e di inserimento socio-lavorativo, allo scopo di facilitare l’accesso adeguato e uniforme alle prestazioni essenziali da garantire alle persone, alle famiglie e alle comunità locali in tutto il territorio nazionale e in particolare nelle zone rurali o svantaggiate».

    Una disposizione recente, insomma, che è stata ben accolta da una parte della classe imprenditoriale del settore agricolo e che, nelle sue finalità, riesce a coniugare diversi aspetti di fondamentale importanza, quali ad esempio la valorizzazione territoriale e paesaggistica delle zone rurali, salvaguardia dell’ambiente, promozione e produzione dei prodotti tipici delle zone di pertinenza. Ma è soprattutto in merito ai soggetti coinvolti che questa legge riveste un valore socialmente rilevante, in quanto prevede la partecipazione delle c.d. «persone svantaggiate» tra cui rientra, appunto, una parte non indifferente della popolazione carceraria. Un provvedimento importante, che si riallaccia ad un’altra vecchia e annosa questione riguardante l’attività lavorativa come misura alternativa alla detenzione.

    Il lavoro in stato di detenzione ha assunto per secoli un “carattere punitivo”, coercitivo; in età Giolittiana si registrarono i primi tentativi (all’epoca considerati dei veri e propri esperimenti) di impiego di alcuni detenuti nelle zone rurali della Toscana e dell’Agro Pontino. Tuttavia il lavoro carcerario rimase relegato a mera “funzione espiativa della pena” per tutto il ventennio fascista e buona parte del secondo dopoguerra. Bisognerà aspettare la rivoluzionaria Legge 26 luglio 1975 n. 354 (Norme sull’ordinamento penitenziario e sulla esecuzione delle misure privative e limitative della libertà) per assistere a un primo radicale cambiamento dello status dei detenuti lavoratori.

    Matteo Picconi