«I giudici, per goder la fiducia del popolo, non basta che siano giusti, ma occorre anche che si comportino in modo da apparire tali: il magistrato che è salito sulla tribuna di un comizio elettorale a sostenere le idee di un partito non potrà sperare mai più, come giudice, di aver la fiducia degli appartenenti al partito avverso. L’opinione pubblica è convinta (e forse non a torto) che prender parte nella politica voglia dire, per i giudici, rinunciare alla imparzialità nella giustizia».
Con la consueta lungimiranza e icasticità, circa settant’anni fa Piero Calamandrei aveva già prefigurato le complesse implicazioni di quel fenomeno che nella rappresentazione mediatica e nel dibattito pubblico è ormai noto come “le porte girevoli tra magistratura e politica”, ossia la tendenza allo sviluppo di forme di passaggio tra ceto giudiziario e sistema politico originata dal non trascurabile numero di magistrati che, nel decidere di partecipare a competizioni elettorali, esercitano un diritto costituzionalmente garantito, ma sollevano anche dubbi e problematiche che non sempre trovano puntuale composizione nella normativa vigente.
L’ultimo caso controverso, in ordine cronologico, è quello del Pubblico Ministero Catello Maresca, che, dopo essersi candidato senza successo a sindaco di Napoli (dove prestava servizio presso la Procura della Repubblica), è tornato in ruolo e svolge al contempo le funzioni di consigliere comunale nella città partenopea e quelle di consigliere di Corte d’Appello a Campobasso, con buona pace di Montesquieu ma in perfetto ossequio a quanto formalmente stabilito dall’ordinamento.
Francesco Moroni