Sucidi, sovraffollamento, assenza di misure alternative per la rieducazione dei detenuti. La crisi del carcere nell’Italia contemporanea, tra populismo penale e il deterioramento degli istituti di pena

Lo sfondo pandemico e post-pandemico

La pandemia sembra avere comportato un peggioramento improvviso delle condizioni di detenzione. Nel 2020, all’inizio del lockdown, le notizie delle rivolte dei detenuti, che sfociarono nel tragico esito di 14 morti, colpirono l’opinione pubblica nazionale. Contemporaneamente, la notizia che alcuni condannati per mafia, sottoposti alle misure del 41 bis, stavano per usufruire degli arresti domiciliari, provocò un cortocircuito mediatico, alimentato dal conduttore televisivo Massimo Giletti.

In breve si sparse presso l’opinione pubblica italiana la convinzione che le rivolte fossero capeggiate dai mafiosi in funzione strumentale, e che non avessero niente a che fare con le condizioni di vita dei detenuti e con la pandemia. Eppure, a parte la frase pronunciata dal boss Graviano su Giletti, non sono seguite inchieste che provassero la direzione mafiosa delle rivolte. D’altronde i mafiosi condividono con gli altri detenuti la condizione detentiva, e ovviamente trovano vantaggioso ogni allentamento della carcerazione o il differimento della pena. Né è stato provato che il boss Graviano abbia dato seguito al commento insofferente con ritorsioni nei confronti del presentatore.

La questione relativa alle condizioni di vita all’interno delle carceri passò così in secondo piano, travolta da una polemica che portò alla rimozione del capo del DAP su input del presentatore televisivo. Anche le morti di Sant’Anna a Modena e di Santa Maria Capua Vetere finirono nel dimenticatoio, forse perché soffocate dall’etichetta della presunta, mai provata, matrice mafiosa.

Vincenzo ScaliaUniversità di Firenze