La strage di Capaci Franco Lannino. ANSA

Le recenti operazioni antimafia ci ricordano che la caccia al superlatitante è sempre aperta. Di lui, però, nessuna traccia. Il potere di u Seccu volge veramente al tramonto o lo Stato sta perdendo la partita?

Dal 1993 ad oggi ne è passata di acqua sotto ai ponti. L’Italia è cambiata: siamo entrati nella fase della Seconda Repubblica, abbiamo adottato l’Euro, abbiamo affrontato una crisi economica (ancora non superata) e, recentemente, una pandemia. Ma non sono cambiati solo gli italiani, la classe politica, il settore economico, lavorativo, no: è cambiata pure la mafia e il principale artefice di questo mutamento non può che individuarsi in lui, Matteo Messina Denaro, latitante proprio da quel 1993, l’anno dell’arresto di Totò Riina, l’anno in cui si sgretola il sistema partitico italiano in seguito all’inchiesta di “mani pulite”, l’anno delle bombe di Milano, Firenze e Roma.
Ci si avvicina, insomma, al trentennale della latitanza di u Seccu. Non un record, certo, se paragonato alla vicenda di Bernardo Provenzano, arrestato nell’aprile del 2006 dopo ben quarantatré anni di caccia all’uomo. Ventotto anni in cui il fenomeno mafioso si è fatto meno “rumoroso” ma sempre presente, Cosa nostra ha risposto colpo su colpo allo Stato, non più con gli agguati o le bombe, ma con affari milionari, appalti pubblici, con un controllo meno tangibile ma non meno stringente su tutto il territorio nazionale. Rispetto a trent’anni fa lo Stato dispone di mezzi che magistrati come Chinnici o Falcone si sognavano, eppure Cosa nostra è sopravvissuta e, anzi, sembra più forte (e ricca) che mai.

Il “principe” di Castelvetrano
Non se ne conosce il volto attuale, in una vecchia registrazione relativa a un verbale rilasciato alla Polizia nel 1988 a malapena si riesce a distinguerne la voce. Eppure sono ventotto anni che sentiamo parlare di Matteo Messina Denaro, sappiamo molto di lui. Libri, inchieste giornalistiche, rapporti d’indagine, ci trasmettono l’immagine di un criminale atipico, moderno, un “mafioso 2.0” è stato più volte definito, quasi un personaggio da film. Sembra molto distante dal prototipo del mafioso siciliano, tutto coppola, camicia a quadri e aria da contadino, che eravamo abituati a vedere. Ma dietro quell’aria da ragazzo alla moda, dietro quei Ray Ban a goccia, c’è lo stesso sanguinario e spietato “uomo d’onore”, capace di compiere gesti atroci fin dalla giovane età, tanto da diventare un prediletto di Riina già nel corso degli anni ’80.
Sappiamo molto di lui, appunto. È nota la sua insofferenza verso il rigido “codice d’onore” delle vecchie famiglie così come la sua reputazione di fimminaro, amante del lusso e della bella vita. Matteo Messina Denaro però è anche un predestinato, un “figlio d’arte”. Il padre era Francesco Messina Denaro, capomandamento della cosca di Castelvetrano fino al 1998 (anno del decesso), fedelissimo alla fazione dei corleonesi di Riina. Coccolato da don Ciccio e u Curtu, il giovane Matteo si distingue fin da giovanissimo per intelligenza e intraprendenza. Promette talmente bene che, ancora ragazzo, affianca il padre durante le riunioni dei capi famiglia di Cosa nostra trapanese. Cresce come un privilegiato, lui è il “principe” di Castelvetrano.
«A Castelvetrano lo sanno che è un picciotto, uno a cui si bacia la mano, il figlio dello zu Ciccio, un uomo rispettato da tutti in paese, perché spesso si sostituisce allo Stato in questo posto a sud del Sud» scrive in “U Siccu” il giornalista del L’Espresso Lirio Abbate.
La forza delle mafie e, soprattutto, di Matteo Messina Denaro, consiste proprio in questo: sostituirsi allo Stato. Una lezione che abbiamo imparato, un problema che ancora non è stato superato, specie a “sud del Sud”. Una lezione che il giovane Matteo imparò bene dallo zu Ciccio. Oggi, infatti, a capo di un impero economico difficilmente quantificabile, c’è lui. Passano in secondo piano le intimidazioni, le serrande fatte saltare in aria, le minacce a chi non si piega al racket imposto dalle cosche mafiose: u Siccu a Castelvetrano non si tocca, è rimasto il “principe”, stimato, rispettato, temuto, da taluni addirittura venerato e, molto probabilmente, protetto.

Matteo Picconi